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Machines in Flames

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VOTO: 7

Dalle datate ma per certi versi illuminanti azioni di “CLODO” a un possibile futuro

Continua al 41° Bergamo Film Meeting e in particolare nella sezione Visti da vicino l’esplorazione di nuovi linguaggi cinematografici, di diverse e spesso trascurate porzioni dell’immaginario. In tal senso colpisce parecchio Machines in Flames di Andrew Culp e Thomas Dekeyser. A partire proprio dalla genesi del progetto.
La decisione di trasformare in un film quello che avrebbe potuto tranquillamente rimanere un saggio teorico o una pubblicazione per riviste scientifiche è stata in effetti una conseguenza dell’incontro tra due autori con competenze e percorsi di studio solo in parte affini, determinati però a far dialogare le rispettive esperienze, per analizzare insieme un episodio che all’epoca fece scalpore (pur essendosene parlato sempre meno, in seguito) e che resta paradigmatico dei rischi che la nostra società sta correndo, per via di certi usi della tecnologia e degli strumenti informatici.

Nella fattispecie Andrew Culp è un apprezzato teorico dei media statunitense, i cui studi sull’archivio, sull’accesso alle informazioni e su tematiche similari (da cui sono nate pubblicazioni illuminanti come “A Guerrilla Guide to Refusal” e “Dark Deleuze”) ha fornito un validissimo background scientifico e filosofico al lavoro portato avanti insieme; mente il belga Thomas Dekeyser, l’unico per sua stessa ammissione che in precedenza aveva fatto un po’ di pratica con la videocamera, è a sua volta un ricercatore presso la Royal Holloway, prestigiosa università londinese, dove ha condotto negli ultimi anni studi approfonditi sulle varie forme di rifiuto della tecnologia e sull’operato di gruppi militanti, dal cosiddetto “luddismo” delle origini ad esperienze più vicine al mondo contemporaneo.
Entrando nello specifico, i riflettori sono puntati qui sull’attività di sabotaggio svolta a Tolosa negli anni ’80 da un gruppo fattosi conoscere all’epoca come “CLODO”: ovvero una rete di militanti che riuscì a danneggiare, nel corso di audaci blitz notturni, i macchinari e i sistemi informatici di alcune importanti multinazionali e istituzioni. Per svanire poi nel nulla, dopo aver effettuato con successo svariate missioni. Roba da romanzo cyberpunk, volendo…. e dalle conseguenze politiche che appariranno sempre più chiare nel corso della visione.

Ebbene, come proprio a Bergamo ha avuto modo di raccontarci, il giovane Thomas Dekeyser stava già studiando la breve ma significativa parabola di questo gruppo, quando da un confronto a distanza con Andrew Culp, l’altro esperto del settore (che il belga avrebbe incontrato di persona solo a lavoro concluso: anche questo un indizio, volendo, del campo di ricerche che stiamo provando a circoscrivere) coinvolto nel progetto sin dall’inizio, è nata l’idea di dare a tutto ciò una forma cinematografica. Il risultato è per l’appunto Machines in Flames, un oggetto filmico ibrido, a tratti ostico nella fruizione ma perfettamente in grado di far scaturire riflessioni non banali sulla modernità. E di squincio sulle sue zone d’ombra più morbose, allarmanti. Se l’estetica prevalente dell’atipico documentario diretto da Thomas Dekeyser ed Andrew Culp è quello del “desktop movie“, centrato quindi su filmati di repertorio pescati in rete, elaborazioni grafiche e ricorso continuo alle funzionalità (arche)tipiche di un computer, a non rimanere indifferente sul piano emotivo è anche la scelta degli autori di creare un ansiogeno controcampo nel “mondo reale”, filmando di notte e da una certa distanza gli edifici che negli anni ’80 furono oggetto delle azioni di protesta del gruppo. Come a voler riprodurre il punto di vista degli attentatori stessi, ossia l’attenzione, l’adrenalina e il potenziale turbamento presenti nel pianificare azioni simili e apprestarsi poi a metterle in pratica, un po’ alla maniera dei “graffitari”.
Non meno rilevante l’apparato teorico messo in campo, con un sostrato filosofico che si snoda agilmente dai Frammenti di Eraclito (e dalla sua peculiare visione dell’universo) al contributo offerto da pensatori contemporanei come Agamben e Derrida. Una lunga serie di snodi concettuali utilissimi, tra l’altro, a far crescere nello spettatore la consapevolezza del collegamento tra le intuizioni che i membri di “CLODO” avevano avuto e le derive più inquietanti di una società attuale, che si configura sempre più spesso come “società del controllo”.

Stefano Coccia

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