Trip mortale
Tra gli otto titoli del concorso lungometraggi della 23esima edizione del Milano Film Festival c’è stato spazio anche per il cinema di genere orgogliosamente e coraggiosamente indipendente, dalla forte impronta autoriale. Si tratta di Luz, saggio di diploma di Tilman Singer all’Accademia di media arts KHM di Colonia, che prima di approdare alla kermesse meneghina in anteprima italiana aveva già fatto parlare di sé nel circuito festivaliero internazionale, iniziando il proprio percorso alla Berlinale 2018 nella sezione “Perspektive Deutsches Kino”.
Del resto, quello firmato dall’esordiente regista tedesco è un’opera assolutamente fuori dagli schemi predefiniti, gli stessi che decide sin da subito di demolire a favore di una maionese impazzita di imprevedibili soluzioni narrative, visive e sonore. Ciò lo rende un’autentica scheggia impazzita che lo schermo di turno fa fatica a contenere. Luz, infatti, non appartiene a un filone preciso, piuttosto a una combinazione e una contaminazione senza soluzione di continuità di generi (mistery, fantascienza, crime e horror) che ne vanno ad alimentare il plot. Quest’ultimo è quanto di meno lineare si possa incontrare da un punto di vista narrativo, con un racconto che mescola senza sosta il piano reale con quello onirico tanto da non riuscire più a capire dove finisca uno e inizi l’altro. Ne nasce un incubo ad occhi aperti governato da un’entità sovrannaturale. Un viaggio a ritroso costellato da personaggi dall’identità fluida e imprevedibile in continuo divenire, volto a farci scoprire chi sia e cosa abbia fatto la tassista Luz prima di essere esaminata da uno psicologo alla presenza della polizia nel corso di una notte di tregenda.
Il risultato è un contenitore dove l’autore riversa propri ardori creativi, suggestioni e immaginari cinematografici più di ieri che di oggi, che rievocano modus operandi e patine vintage old style: da Carpenter a Friedkin, da Zulawski a Tobe Hooper, dal primo Cronenberg ad Argento, passando per Lynch. Tilman sembra, infatti, volerci mettere del suo, ma il romanticismo nostalgico per ciò che è stato prede inevitabilmente il sopravvento guidando la messa in quadro e gran parte delle scelte stilistiche. Luz si presenta come un museo delle cere audiovisivo ipercinetico privo di pennellate personali. Questo alla lunga stanca e depotenzializza l’opera nel suo complesso, togliendogli quel minimo di originalità che è giusto pretendere da un’operazione come questa.
Dall’altra parte, il regista tedesco scrive e dirige con il piede sempre pigiato sull’acceleratore in un crescendo che assume via via le sembianze di un trip ipnotico e di un’esperienza sensoriale radicale che agisce sulle sinapsi dello spettatore grazie a un lavoro di sound design e colonna sonora da fruire al massimo volume. Proprio qui, nella componente sonora c’è il meglio di un film che consigliamo, se decideste di vederlo, di recarvi in una sala con un ottimo impianto dolby.
Francesco Del Grosso