Indovina chi è?
Michael è un assicuratore con trascorsi da agente dell’FBI che ogni giorno prende lo stesso treno per andare e tornare dal lavoro. Un giorno viene avvicinato da una seducente psicologa di nome Joanna che lo sfida a fare un gioco: deve scoprire quale passeggero del treno è, a suo avviso, “fuori posto”. Michael è intrigato e accetta la sfida, ma si trova presto coinvolto in una pericolosa cospirazione criminale in cui è in gioco la sua stessa vita, quella della sua famiglia e di tutti i passeggeri a bordo.
C’è una chiaro e voluto rimando al cinema hitchcockiano nel plot di questo action-thriller sulle rotaie battezzato L’uomo sul treno – The Commuter, nelle sale nostrane con Eagle Pictures dal 25 gennaio, che vede Jaume Collet-Serra e Liam Neeson, qui alla loro quarta collaborazione dopo Unknown – Senza identità (2011), l’ancora inedito Non-Stop (2014) e Run All Night – Una notte per sopravvivere (2015), impegnati rispettivamente dietro e davanti la macchina da presa. L’architettura progettuale, la successiva costruzione e l’approccio alla linea mistery, così come il disegno e la collocazione dei personaggi sullo “scacchiere”, infatti, attingono a piene mani – sin dalla fase di scrittura – all’ormai storico e riconoscibilissimo modus operandi narrativo e drammaturgico che ha fatto grande fra i grandi Sir Alfred e il suo modo di fare e concepire la Settima Arte. Fonte d’ispirazione inesauribile e per molti versi imprescindibile per coloro che, nel bene ma purtroppo il più delle volte anche nel male, hanno provato e continuano a provare a confrontarsi con il genere in questione e con una certa tipologia di storia dalle forti venature gialle, tale modus è servito anche in questo caso a gettare e solidificare le fondamenta dello script. In tal senso, gli autori di quest’ultimo, ossia la coppia formata da Byron Willinger e Philip de Blasi, alla pari di colui che è stato scelto per mettere il tutto in quadro, hanno sin dall’inizio dichiarato di averne preso in prestito le linee guida fondamentali, con tutti i rischi che una simile scelta comporta. Non è detto, infatti, che seguire pedissequamente o anche a grandi linee una lezione perfetta come quella lasciata in eredità ai postumi dal maestro britannico possa generare di default risultati altrettanto alti. Statistiche alla mano, con decenni alle spalle e centinaia di tentativi non andati a buon fine, la percentuale di danni o effetti collaterali è risultata piuttosto elevata. Fortunatamente non è il caso de L’uomo sul treno, o meglio lo è solo a metà, poiché qualche criticità, strada facendo, la si incontra nel corso della timeline, soprattutto in prossimità dell’ultima mossa sullo scacchiere, quella rivelatrice. Le fragilità drammaturgiche si affacciano in quelle fasi di stallo quando si rende necessario un rilancio. Sono proprio gli stalli e i momentanei black out, generati dall’attesa che al protagonista venga comunicata la mossa successiva, a indebolire un racconto che altrimenti ritmicamente andrebbe spedito sino al suo epilogo. Condensare e attenuare quei tempi d’attesa avrebbe contribuito alla causa, limitando i danni.
Ciononostante la pellicola riesce comunque a tenere alta la tensione e a calamitare a sé l’attenzione dello spettatore, qui alle prese con un’opera che, come già accennato, si serve di ingredienti ed espedienti hitchcockiani per condire la ricetta del giorno, un po’ come anni or sono aveva fatto John Badham con il suo Minuti contati (1995). Al centro de L’uomo sul treno c’è l’immancabile uomo normale calato suo malgrado in una situazione estrema, che lo vede trovarsi di fronte a una scelta morale. Ora il Michael del film di Collet-Serra è a tutti gli effetti il classico “family man” o uomo qualunque, ma il passato da poliziotto non lo mette sullo stesso piano dei protagonisti dei malcapitati dei vari Intrigo internazionale, La signora scompare, L’altro uomo o La finestra sul cortile. I trascorsi dell’assicuratore interpretato da Neeson danno al personaggio competenze e possibilità di sopravvivenza maggiori rispetto ai “colleghi”. Dal canto suo, Neeson torna a vestire panni a lui ormai troppo congegnali, simili a moltissimi che ha già indossato per costruire e delineare personaggi del passato (su tutti quelli della trilogia di Taken). Vestiti che, anche se indossati ancora con scioltezza dall’attore irlandese, dovrebbero in termini di carriera sul grande schermo iniziare ad andargli un po’ stretti. Neeson se la cava ancora alla grande e con Serra sembra aver dato vita a un buono e fruttuoso sodalizio al box-office, ma l’idea di vedere altri in quel ruolo non ci sarebbe dispiaciuta.
Così come c’è il punto di vista soggettivo con il quale il film viene narrato, ossia quello del suo protagonista. Di conseguenza, le scoperte del personaggio principale vanno di pari passo con quelle dello spettatore, quest’ultimo privato di qualsiasi vantaggio o condizione di onniscienza. Ciò mette sullo stesso piano chi sta comodamente seduto sulla poltrona del cinema e chi se la sta vedendo brutta sullo schermo. Ne nasce una partita a scacchi, dove a dettare le regole è solo e soltanto l’autore, che decide quando e perché. Il meccanismo qui funziona e dà buoni frutti, forse i migliori nel complesso dell’operazione. Semmai la nota dolente viene dalla commistione, ossia dal passaggio dalla componente mistery a quella action, ossia quando la prima cede il testimone alla seconda, come ad esempio nel finale o ancora prima nella risalita sul convoglio in corsa. Non che i passaggi squisitamente d’azione siano di pessima qualità, al contrario scene come il corpo a corpo con il killer in piano sequenza o l’epilogo stesso, dimostrano ancora una volta quanto il cineasta basco di adozione e formazione statunitense sia un abile esecutore dal punto di vista tecnico, con l’uso ottimale e versatile della cinepresa con un campo d’azione a 360° nonostante l’unità spaziale imposta dalla topografia del treno (come accaduto anche in Train to Busan o Snowpiercer). Piuttosto è il dosaggio dell’azione al di sopra dell’effettiva richiesta a destabilizzare una linea thrilling che poteva offrire ancora di più alla platea in termini di suspense. Insomma, è il processo di ibridazione al quale la timeline viene sottoposta a rompere le uova nel paniere.
Francesco Del Grosso