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L’uomo che visse tre volte

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VOTO: 6

Una valigia piena di Storia

Ci sono persone che nel corso della propria esistenza, lunga o breve che sia, hanno vissuto più vite in una, perché il destino o chi per lui ha scelto di metterle di fronte a esperienze molteplici, più o meno durature, che hanno fatto cambiare loro strada. Mario Pirani è uno di queste persone. Nato in una famiglia borghese di origine ebraiche, ha vissuto sulla sua pelle le terribili leggi razziali promulgate dal regime fascista. Nel dopoguerra è diventato prima funzionario del Partito Comunista Italiano, poi dirigente dell’ENI di Enrico Mattei e infine s’è dedicato al giornalismo, diventando uno dei protagonisti della grande avventura della fondazione del quotidiano La Repubblica. Tre diverse vite, tutte vissute in maniera intensa, che il regista Irish Braschi ha provato a raccogliere e raccontare in L’uomo che visse tre volte, presentato in anteprima mondiale nel fuori concorso della quinta edizione di Visioni dal Mondo.
L’autore ha puntato sulla docu-fiction, mescolando l’artificio della messa in scena al film di montaggio, usando come leit motiv le pagine della preziosissima autobiografia di Pirani del 2010 dal titolo “Poteva andare peggio – Mezzo secolo di ragionevoli illusioni”. E Braschi non poteva non narrare tutto questo attraverso un diario di viaggio fisico ed emozionale che frame dopo frame, parola dopo parola, si va componendo davanti ai nostri occhi in tre macro-capitoli, preceduti da un lungo prologo che ci catapulta nella situazione dipinta sul grande schermo dal regista. L’uomo che visse tre volte si trasforma così in un viaggio nei suoi ricordi, nella sua memoria, intrapreso da un misterioso Uomo, interpretato da Neri Marcorè. Un personaggio fuori dal tempo, vestito con abiti anni ’30, con una valigia che contiene foto e oggetti appartenuti a Pirani, che si muove immerso nei tempi di oggi. A bordo di uno splendido treno a vapore, l’Uomo attraversa una terra sconosciuta, indefinita, mentre la sua mente lo porta nei luoghi dove si è svolta la vita di Mario Pirani. Un viaggio senza tempo, dal tono quasi favolistico. Un racconto onirico per narrare la Grande Storia, quella che ha coinvolto tutti, attraverso gli occhi di un grande testimone di quell’epoca.
Il risultato per fortuna riesce a non scivolare nelle sabbie mobili dell’agiografia, anche se in certi passaggi della timeline il pericolo che tale problema possa palesarsi si fa più grande. Ciò che si materializza a conti fatti è un biopic che sa di compendio wikipediano nel quale l’autore riassume e comprime stagioni, eventi epocali ed esperienze. Storia privata e collettiva scorrono parallelamente intersecandosi di volta in volta quando la reincarnazione cinematografica di Pirani si trova a ripercorrere i luoghi che hanno fatto da cornice alla vita e alla carriera del protagonista, all’infanzia, alla giovinezza, trascorsa durante un periodo tra i più bui del Novecento.
Per quanto concerne le scene di fiction la soluzione scelta da Braschi, seppur ben confezionata in termini di messa in scena, non è particolarmente originale, poiché ad essa la Settima Arte e tra gli altri Wim Wenders hanno attinto in più di un’occasione per creare un cortocircuito tra passato e presente, come ad esempio in Il cielo sopra Berlino o nell’episodio dedicato alla filarmonica di Berlino che il cineasta tedesco ha realizzato per il film collettivo Cattedrali della Cultura. È invece sul frangente del lavoro sui materiali d’archivio che si vedono le cose migliori. Ovviamente alla base c’è un accurato processo di setaccio ed editing dei filmati, alcuni dei quali inediti e davvero affascinanti, scovati negli archivi dell’Istituto Luce e messi al servizio della narrazione e a supporto delle sequenze di fiction. Un lavoro di qualità che ha costituito per l’opera nel suo complesso una grande fonte di arricchimento contenutistico ed emotivo, quello che al contrario le ricostruzioni sono riuscite a fare scaturire solo in minima parte. Peccato che di tanto in tanto si inciampi in un eccesso di didascalismo legato all’esigenza di fornire più supporto possibile alla fiction attraverso le immagini di repertorio, quest’ultime utilizzate spesso per confutare ciò che si sta raccontando o per integrarlo, non come segmenti di una narrazione guida alla quale affidarsi.
Ma la vera mancanza in L’uomo che visse tre volte per quanto ci riguarda è l’assenza in video del compianto Pirani, per il quale non sono previsti in nessun modo frammenti di interviste di repertorio, ma solamente qualche fugace apparizione nelle fotografie che lo ritraggono in epoche diverse ed estratte di volta in volta dalla valigia inseparabile del suo avatar cinematografico. Scelta, questa, che fa storcere un po’ il naso a chi come noi avrebbe voluto sentirne la testimonianza dalla voce originale.

Francesco Del Grosso

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