Lost Director
L’esordio alla regia di Ryan Gosling – presentato e mal accolto al Festival di Cannes 2014 – sembra un collage di stili, temi, idee di cinema di autori non a caso citati nei titoli di coda dal neo regista: nomi più o meno altisonanti come Terrence Malick, Nicolas Winding Refn e Derek Cianfrance – registi coi quali Gosling ha lavorato nel passato recentissimo.
Lost River pare voler assemblare suggestioni provenienti dai succitati nomi nel tentativo – ci sentiamo di dire fallito, e non siamo i soli – di porre delle basi su cui costruire qualcosa di “nuovo”, ma ai nostri occhi risulta nient’altro che confusione, per quanto confezionata in maniera sontuosa; le uniche cose che svettano su tutto il resto sono il disorientamento e l’arroganza dell’attore-regista che, nel fluire incessante di “cose” messo in scena in questa sua opera prima, sembra dire, urlare “sono partito e già arrivato da qualche parte; mi muovo, faccio e disfo come mi pare”.
Partendo dai margini impolverati, sudici dell’America Southern con fare contemplativo-estatico à la Malick, allucinato à la Refn, Lost River prende d’un tratto la direzione del grottesco, della “stramberia” dal sapore – sarà banale ribadirlo – vagamente lynchiano e dal retrogusto dolciastro-sognante di un romance qualunque del mare magnum dell’indie americano (e non solo) degli ultimi quindici anni almeno.
Un accatastamento di disagio sociale (case espropriate, una madre sola con due figli impegnata nella ricerca di denaro per salvare la loro) locali notturni popolati da figure che sembrano prese di peso da Velluto blu di Lynch, luci fluo, e veri e propri mondi sotterranei incantati (unici rifugi possibili?) contrapposti al degrado e alla perversione urbana; l’estasi e la sporcizia, l’incanto e la decadenza di un’America che sa di già visto, e oramai assimilato, tanto da risultare una vetrina luccicante e inerme, un compendio(-omaggio?) di stili e poetiche che lascia indifferenti quando non infastiditi. E non basta mescolare alto e basso e infilare cammei più o meno colti ed eccellenti (un’oramai più che sfiorita Barbara Steele, messa lì tanto per…) in un fluire sconclusionato per farsi autori, o almeno per tentare di porre delle basi da cui far partire un discorso atto a svilupparsi nel tempo.
Fabrizio Catalani