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Lost Country

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VOTO: 6

Un’anima (serba) divisa in due

La giuria del 35° Trieste Film Festival, oltre a premiare Stepne dell’ucraina Maryna Vroda quale Miglior Lungometraggio, ha voluto assegnare una Menzione Speciale a Jovan Ginić, il protagonista di Lost Country, con la seguente motivazione:
Vorremmo dare una menzione speciale a Jovan Ginić per la sua performance straordinariamente costante e convincente nel suo film di debutto Lost Country, per essere riuscito a rendere la complessa personalità di un bambino lacerato dalle turbolenze politiche nella Jugoslavia degli anni Novanta.
Il lungometraggio del serbo Vladimir Perisic, a sua volta autore nel 2009 di Ordinary People (nonché di un episodio inserito nel film collettivo I ponti di Sarajevo), era stato precedentemente proiettato alla Semaine de la Critique di Cannes 2023, dove pure la performance di Jovan Ginić era stata notata, facendogli ricevere molteplici apprezzamenti e consentendogli di vincere il premio quale Miglior attore emergente.

Sulle qualità interpretative del giovane Jovan Ginić vi sono quindi pochi dubbi: notevolissima la sensibilità che gli ha concesso di dar vita a un personaggio tormentato, scisso a livello emotivo sia nei confronti della propria famiglia che nei confronti di un paese, la Serbia, giunto nel 1996 al classico crocevia della Storia. Laddove l’egemonia per molti versi tirannica di Slobodan Milošević cominciava a scontrarsi duramente con forze politiche e sociali emergenti.
Scisso però è anche il nostro giudizio sul film, per via di una capacità di mettere a fuoco dinamiche socio-culturali profonde limitata talvolta da scelte narrative un po’ artificiose, stentoree. Cominciamo col dire che la centralità di questo teso racconto cinematografico, ispirato in parte a fatti autobiografici, è occupata dallo spaesamento e dalle turbe adolescenziali del quindicenne Stefan, diviso tra l’affetto per la madre e il nonno comunisti strenui difensori di Milošević (lei, la madre, di tale governo è addirittura la portavoce) da un lato, la graduale scoperta delle violente repressioni e dei crimini avvallati dalla propria stessa famiglia, per una forma di tetro irrigidimento ideologico, dall’altro. Ciò gli creerà scompensi anche coi compagni di scuola, con la propria squadra di pallanuoto, con la prima fidanzatina, allorché la sua incertezza riguardo al prendere le distanze dalle scelte famigliari verrà additata ad esempio di vigliaccheria e complicità…

L’indagine riguardante la complessa psicologia di Stefan, grazie anche all’intensità del protagonista, è condotta in modo sincero, credibile. I suoi incontri più o meno problematici con i coetanei e col mondo adulto sono resi bene, senza smussarne affatto le asperità. Debole invece appare la messa in scena allorché, specie nella parte finale, il ragazzo deve confrontarsi coi manifestanti e le proteste, in una Belgrado scossa nel ’96 dai gravi scandali elettorali. Più in particolare la scelta drammaturgica di far incontrare al ragazzo, durante quel suo disperato peregrinare tra gli scontri in atto, tutti i personaggi chiave della sua vita sociale (la ragazza per cui ha una cotta, gli ex amici che lo hanno rinnegato, il professore dai sentimenti democratici) appare un po’ troppo costruita, artefatta. Togliendo così un filo di autenticità a una narrazione che fino a quel punto aveva accumulato diversi spunti interessanti.

Stefano Coccia

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