Casa Nostra
Palermo, 1995. Una coppia inizia una giornata anomala. Lei è una quarantenne tormentata dal pensiero dei bambini mai avuti; lui un commissario di polizia dedito al proprio lavoro. Ha un autista che lo porta dappertutto, anche a interrogare un ragazzo che conosceva le due vittime di un omicidio. Volti, corpi e situazioni si alternano tra il mondo della donna, quello di un bambino rapito dalla mafia e quello del ragazzo interrogato. Poi tutto evolve e precipita, svelando i contorni di una storia da cui nessuno rimarrà immune.
Sinossi alla mano, l’esordio nel lungometraggio di finzione di Salvo Cuccia dal titolo Lo scambio, tra i quattro rappresentanti battenti bandiera tricolore in concorso alla 33esima edizione del Torino Film Festival, potrebbe apparire a una prima e distratta lettura come il classico mafia-movie, o meglio, come l’ennesimo romanzo criminale di “Casa Nostra” (tanto per utilizzare un gioco di parole), ma per fortuna non è così. L’opera prima del versatile e poliedrico regista siciliano, capace nella sua carriera di muoversi agilmente senza soluzione di continuità dalla videoarte alla fiction, passando per le diverse forme del documentario, si veste da tale, ma conservandone solo in parte i temi, gli stilemi, i personaggi e le dinamiche chiave, per poi liberarsene strada facendo.
Il merito di Cuccia, al di là che della riuscita oppure no del suo film, sta proprio in questa scelta di non accodarsi alla sterminata scia che nei decenni ha partorito cloni e (cine)fotocopie in rapida sequenza, in particolare dopo le stragi del 1992. Per farlo, il regista si affida in fase di scrittura alla preziosa collaborazione – tra le altre – di Alfonso Sabella, magistrato impegnato per anni sul fronte antimafia in Sicilia. Questa consulenza si rivela determinante, utile in primis per evitare di cadere nelle sabbie mobili dello stereotipo e della ripetitività; quanto basta per restituire sullo schermo un racconto diverso da quello al quale siamo ormai abituati da decenni, specialmente quando si tratta di portare al cinema storie di criminalità più o meno organizzata. Il risultato parte comunque da fatti realmente accaduti, ma ciò che ne emerge non è un mero resoconto della cronaca del tempo, anche se lo spettro degli attentati alleggia come una presenza ectoplasmatica nei volti, nei luoghi e nelle azioni alle quali assistiamo. Il baricentro drammaturgico e le intenzioni di Cuccia vanno, infatti, verso un’altra – cinematograficamente parlando – direzione, tanto sul fronte narrativo quanto da quello estetico-formale. Questo ci permette di non assistere alla solita minestra riscaldata, rielaborata e riproposta per l’occasione, ma di entrare in contatto con un approccio alla materia più mnemonico, empatico e sensoriale, vicino per resa e direzione a quelle del Leonardo Di Costanzo de L’intervallo o a quelle del duo Grassadonia-Piazza di Salvo. Per dirlo con le parole del regista: «Mi interessava sondare la natura dei personaggi e delle situazioni, per estrarne una drammaturgia che vivesse di vita propria, al di là dei fatti reali, visto che gli elementi di partenza erano molto forti ed era evidente la relazione tra cause ed effetti. Mi interessava anche andare nella direzione di un racconto oscuro, in cui ciò che appare rivela crepe che via via si allargano in un gioco di svelamenti».
Con queste intenzioni, Cuccia costruisce un thriller psicologico che ribalta tutte le certezze, grazie a un cambio drastico nell’architettura del racconto che ribalta totalmente la prospettiva e con essa tutti i pronostici dallo spettatore, sia sulla direzione che prenderà la storia che sul destino che toccherà ai singoli personaggi. Lo scambio è come un camaleonte che muta improvvisamente e inaspettatamente pelle. Le figure che popolano la sceneggiatura si sdoppiano, varcando la linea di confine che separa il bene dal male, ma sta al fruitore scoprire come e quando, perché non saremo di certo noi a spoilerarlo. Proprio questa mutazione rappresenta il punto di forza dell’opera, ciò che le permette di navigare in acque più sicure, le stesse dove operazioni analoghe si sono inabissate sino a toccare il fondo della mediocrità e dove i primi trenta minuti del film di Cuccia hanno annaspato pericolosamente. Il regista palermitano disegna una dimensione scatologica e claustrale, circoscritta temporalmente nell’arco di una giornata che segnerà in maniera indelebile le esistenze dei personaggi, quest’ultime legate le une alle altre da un filo sottile e invisibile che sembra volersi spezzare da un momento all’altro. A questa dimensione scatologica e alla tensione che ne deriva contribuisce la regia attraverso una messa in quadro che ingabbia i personaggi in immagini il più delle volte fisse (animate da un preciso lavoro sulle focali) o dai movimenti lenti e chirurgici (vedi i carrelli e le steadycam nella casa del commissario). La ricercatezza che emerge nella scelta del taglio di ogni singola inquadratura e la cura fotografica danno forma e sostanza a uno stile che è l’altro punto di forza dell’opera.
Francesco Del Grosso