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Lo Hobbit: La battaglia delle Cinque Armate

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VOTO: 8

Heart of Fantasy

Peter Jackson, con la trilogia dell’Anello, ha creato una nuova estetica cinematografica, riuscendo mirabilmente a fondere elementi differenti quali senso dell’epica, afflato umanista e ritmo da videogioco consapevole. Nei primi due capitoli de Lo Hobbit – al di là della medesima origine letteraria targata Tolkien – può aver dato l’impressione di ripercorrerne i passi formali senza aggiungere altro. Un’affermazione su cui si è potuto certo dibattere, almeno sino all’opera conclusiva della saga, cioè Lo Hobbit: La battaglia delle Cinque Armate. Non un semplice compendio dei precedenti cinque film, che adesso pare davvero impossibile non considerare un corpus unico; bensì qualcosa di più e di diverso. Un lungometraggio intriso di classicismo eppure sbalzato alla velocità di una catapulta nella modernità del presente, con l’immane forza di una fantasia che si arresta per (ben più di) un singolo attimo di ogni sequenza d’azione a contemplare l’essenza, positiva o negativa, dell’essere umano. Un salto su metaforiche montagne russe in cui la giostra si ferma a più riprese, per consentire a chi è sopra di ammirare un panorama che è un ibrido di apocalittico splendore.
Lo Hobbit: La battaglia delle Cinque Armate (ri)comincia esattamente dove era terminato Lo Hobbit: La desolazione di Smaug. Già nel prologo si assiste rapiti alla sconfitta del drago “capitalista” – una fondamentale lettura simbolica socio-politica di una realtà che vede la ricchezza semplicemente come accumulo, quasi mai occasione di sviluppo – capace di lasciare solamente terra bruciata attorno a sé nonché alla promessa di un amore interrazziale teoricamente in grado di abbattere qualsiasi barriera. Siamo solo agli inizi e già vanno accumulandosi sottotesti utili per tre o quattro pellicole di alto livello. Poi si arriva al dunque. Al quid che, nei corsi e ricorsi storici reali, ha mosso gli eserciti fino a quella manifestazione estrema di degrado e brutalità che è la guerra. Perché Lo Hobbit: La battaglia delle Cinque Armate può essere senza dubbio letto come rigoglioso film d’avventura e amore, ma lo stato delle cose ci dice che il genere di appartenenza è quello bellico. Peter Jackson mette in scena una parabola morale di insospettabile – e per certi versi insostenibile – spessore. Nella tana di Smaug, ora priva della sua guardia terrorizzante, c’è Il Tesoro, quello con la maiuscola. Agognato e bramato da tutte le razze presenti nella doppia trilogia. L’avidità del Potere regna sovrana, corrompendo anche l’animo dei valorosi. Sembra Shakespeare, per la potenza in cui il dramma esistenziale emerge dalle pieghe del racconto. Con l’arrivo dell’esercito degli Orchi ogni schermaglia termina e la battaglia deflagra incontrollabile. L’effetto di verosimiglianza, trattandosi prevalentemente di creature di fantasia, supera l’artificiosità di qualsiasi effetto speciale. Si viene risucchiati in un vortice dove si alternano emozioni primarie e nulla è gratuito. Gli atti eroici possono costare il prezzo altissimo della vita ed i concetti di Bene e Male si mescolano sino a rendersi pressoché indistinguibili, come ogni grande film che affronta un argomento così enorme, privandolo di qualsiasi tentazione manichea, riesce a fare. Una delle grandi novità de Lo Hobbit: La battaglia delle Cinque Armate è in fondo proprio questa: nessun eroe alla Aragorn (Viggo Mortensen) del Signore degli Anelli con il quale identificarsi a priori, ma tanti piccoli gesti – umanissimi e non, vista la diversità razziale – che messi assieme riescono a determinare la differenza tra vittoria e sconfitta, sia quest’ultima effettiva che morale.
Al tirar delle somme, nel mentre si abbandona per sempre (?) la Terra di Mezzo, non resta altro da fare che ammettere quanto sia stato entusiasmante perdersi nelle sue lande. Un posto dove il pubblico adolescente ha potuto crescere ed il pubblico adulto è tornato, almeno in parte, bambino. Un luogo cinematografico che resterà in eterno proprietà della fantasia di tutti coloro che lo hanno apprezzato e di cui si deve solo dar merito a quell’inimitabile uomo di cinema che risponde al nome di Peter Jackson. Se confezionare blockbuster acchiappasoldi può essere considerato relativamente facile, fornire a un film ad altissimo costo il dono di un’anima può esserlo assai meno. Forse, come spesso accade in tutte le cose della vita, è solo una questione di amore e passione. Aspetti che al cinema di Peter Jackson, nella sua totalità, non sono mai venuti meno.

Daniele De Angelis

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