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Liyana

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VOTO: 8

The story of my life

Sinceramente, quanti di voi hanno mai sentito parlare del Regno dello Swaziland? i più preparati in geografia tra i nostri lettori, a differenza di tantissimi altri come noi, probabilmente si. Per coloro che barcollano nel buio, trattasi di una nazione collocata nell’Africa del Sud, situata sul fianco orientale dei monti Drakensberg, confinante a nord con il Sudafrica, ad ovest e a sud con il Mozambico. Conosciuta anche come Ngwane, nome adottato in seguito alla proclamazione dell’indipendenza avvenuta nel 1968, la nazione in questione è una monarchia assoluta, attualmente governata dal Re Mswati III dello Swaziland, con capitale Mbabane.
Rimander a parte, viene da sé che vista la storia relativamente breve alle spalle, le scarse disponibilità economiche presenti e l’esigua estensione territoriale che ne delimita i confini nazionali (più o meno 17.000 km²), difficilmente ci si può aspettare la presenza di una vera e propria cinematografia. In tal senso, più che di un’industria del settore radicata e sviluppata bisogna quindi parlare di iniziative sporadiche e piuttosto recenti realizzate e prodotte in loco da cineasti il più delle volte stranieri, rese possibili dall’aiuto di co-produzioni internazionali: da Lost in the World di Xolelewa ‘Ollie’ Nhlabatsi a The King and the People di Simon Bright, da Wah-Wah di Richard E. Grant a Without the King di Michael Skolnik, passando per Painful Love di Nontobeko Nxumalo, Umshana di Bi Phakathi e Dear Francis di Jason Djang, Brent Gudgel. A questi poi bisogna aggiungere anche quei cineasti nativi come Zola Maseko, autore di film come A Drink in the Passage e Drum, costretti dall’esilio a esercitare la propria arte all’estero.
Di fatto, la percentuale di imbattersi in un prodotto audiovisivo proveniente da questo Paese, dunque, è bassissima, per non dire vicino allo zero. Di conseguenza qualsiasi occasione di vederne delle tracce va colta al balzo e così abbiamo fatto quando siamo venuti a conoscenza della proiezione in anteprima italiana di Liyana al 28° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, dove il documentario diretto da Aaron e Amanda Kopp è stato presentato fuori concorso. La curiosità di vedere con i nostri occhi quanto prodotto da quella cinematografia praticamente inesistente era dunque, alla pari del pregiudizio, fortissima, nonostante l’opera in questione approdasse sugli schermi della kermesse meneghina con un curriculum di tutto rispetto e un bel bagaglio di riconoscimenti raccolti nel circuito festivaliero internazionale (tra cui quelli conquistati ai festival di Los Angeles, Denver e Durban nel 2017). E ora che abbiamo avuto la possibilità di constatare di persona quanto di buono un film come Liyana è stato capace di portare in sala, la curiosità da una parte e lo scetticismo dall’altra possono lasciare entrambe spazio ai non pochi meriti raccolti sul campo.
Quello legato alla provenienza, infatti, non rappresentava sulla carta il solo motivo di interesse, poiché a calamitare la nostra attenzione c’era anche lo scoprire in che modo e con quali risultati i Kopp hanno dato forma e sostanza al cuore drammaturgico del progetto e alla sua messa in quadro. Come avremo modo di sottolineare, l’esito su entrambi i fronti è davvero efficace, tanto per la resa quanto per il ventaglio di emozioni che il film è capace di offrire alla platea di turno. Drammaturgicamente e narrativamente parlando, l’opera nasce da un processo di scrittura non inedito ma comunque originale, affidato a un gruppo di talentuosi ospiti di un orfanotrofio dello Swaziland che, guidati dalla celebre cantastorie Gcina Mhlope, affronta i traumi passati attraverso la creazione di una storia, utile a far emergere i loro ricordi dolorosi. L’immaginifica protagonista di questa loro storia si chiama proprio Liyana, una ragazzina coraggiosa che intraprende una pericolosa ricerca per salvare i fratelli rapiti dopo che la loro casa è stata violentemente attaccata. Un’autentica eroina che nel proprio DNA raccoglie in sé le esperienze, i caratteri e gli stati d’animo, di coloro che l’hanno create. Ne viene fuori un racconto corale che, attraverso le voci e i volti degli orfani, si trasforma in una coinvolgente e appassionante avventura in una terra ostile, dove la loro eroina, con al seguito un indomito toro, dovrà vedersela con avvoltoi, iene, alligatori, distese desertiche, spietati ladri di bambini, genitori violenti, malattia (l’HIV), la fame, la sete e persino con un mostro di origini preistoriche.
Una vera e propria odissea quella che prende vita sullo schermo grazie a Liyana e che i cineasti statunitensi rendono visivamente possibile attraverso un riuscitissimo processo di ibridazione, che mescola sapientemente e senza soluzione di continuità documentario, fiction e animazione, riportando alla mente operazioni analoghe come The Dark Side of the Sun o Life, Animated. Il “miracolo” audiovisivo e narrativo che i Kopp portano sul grande schermo è quello di riuscire a fare coesistere in maniera straordinaria ed equilibrata la tradizione orale dello storytelling con la sofisticata animazione digitale bi e tridimensionale. Quanto basta per dare vita un linguaggio moderno, dove passato, presente e futuro, si incontrano e si fondono. Le parti animate, firmate dal nigeriano Shofela Coker, sono di altissima qualità e insieme al girato documentaristico realizzato dai colleghi americani permettono ai tasselli del racconto creato dal gruppo di orfani di generare un potentissimo mosaico, dove non mancano tocchi di autentica poesia.

Francesco Del Grosso

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