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Life – Non oltrepassare il limite

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VOTO: 5.5

Non risvegliare il marziano che dorme

Se una trama come quella di Life – Non oltrepassare il limite non riporta nulla alla memoria le alternative possono essere due: o si è molto giovani (beati loro) oppure, più semplicemente, frequentatori alquanto occasionali della sala cinematografica. In qualunque dei due casi, ma solamente in quelli, il film diretto dallo svedese trapiantato a Hollywood Daniel Espinosa può risultare in grado di intrattenere ricorrendo a schemi a dir poco ampiamente sperimentati.
Mettiamo dunque una space-opera ad ambientazione come ovvio claustrofobica i cui ingredienti sono una missione spaziale al rientro da Marte, un equipaggio un po’ fiaccato da troppi giorni nello spazio e una presenza aliena dapprincipio oggetto di studio in quanto piccola, eterea e docile salvo poi scoprirsi aggressiva e, soprattutto, dotata di intelletto nonché feroce istinto di sopravvivenza. Inutile sprecare termini di paragone con illustri predecessori, uno su tutti l’Alien primigenio di Ridley Scott (1979), ovviamente svuotato di qualsiasi sottotesto e chiave di lettura alternativa: Life rappresenta infatti la quinta essenza di quel cinema derivativo del quale tutto si sente tranne che il bisogno, zavorrato com’è da un’evidente mancanza di coraggio e originalità. Alla fine resta solo la curiosità sul come verrà inevitabilmente decimata la squadra “umana” comprendente quattro uomini e due donne, con i quali il pubblico è chiamato ad empatizzare in modalità default.
Tornare dunque su un sottogenere specifico come questo è perfettamente lecito, per carità; ma allora ci si dovrebbe trovare di fronte ad un bivio tra il ravvivare il filone mediante un intelligente e consapevole utilizzo di quegli stereotipi a torto considerati di categoria inferiore (ironia, splatter, eccessi di ogni tipo eccetera) o altrimenti limitarsi al classico compitino “antologico” senza infamia né lode. Purtroppo, al contrario di altri epigoni assai più disponibili a “sporcarsi le mani” con il cinema di serie B – tipo il recente The Last Days on Mars di Ruairi Robinson (2013), inedito in Italia – Life sceglie la strada più battuta, risultando prevedibile in tutti i suoi cento minuti circa di durata, ivi compreso un telefonatissimo twist finale che in teoria dovrebbe suonare beffardo ma che nella realtà pare un corpo estraneo rispetto ad un’opera capace solo di prendersi dannatamente sul serio. E inserire la celebre hit “Spirit in the Sky” sui titoli di coda lascia solo amari rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato: cioè un ruspante B-movie di quelli che si facevano una volta, quando il cinema sapeva divertire di gusto senza sentirsi obbligato a raggiungere un profitto economico ad ogni costo. Così, anche le funzionali interpretazioni di un cast lussuoso comprendente tra gli altri Jake Gyllenhaal, Rebecca Ferguson e Ryan Reynolds vanno sprecate in uno spazio infinito di banalità dove non sussiste situazione che non sia facilmente intuibile ben prima del proprio accadimento sullo schermo.
A puro titolo di curiosità segnaliamo comunque, dopo le recenti scoperte che attestano le altissime possibilità di vita sul cosiddetto Pianeta Rosso, con perplessità l’aumento esponenziale di lungometraggi fantascientifici che mettono in guardia l’umanità dal cercare nuove fonti di vita nel nostro sistema solare e nell’intero universo: va bene speculare sulle nostre paure recondite verso l’ignoto, però il tutto sembra come minato in partenza da una sorta di conservatorismo fuori tempo massimo. A maggior ragione, come nel caso di Life – Non oltrepassare il limite, quando si decide di sacrificare qualsiasi ambizione nella creazione di un prodotto capace di ricavarsi una nicchia – anche piccola – nella Storia del Cinema preferendo invece giocarsi, al contrario, una partita dal risultato ampiamente scontato. Meglio rivolgersi altrove allora, almeno per cinefili di una certa età avvezzi ad esperienze di certo maggiormente appaganti.

Daniele De Angelis

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