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Liebmann

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VOTO: 7

(Re)inizio

Non è affatto semplice raccontare l’impatto sullo spettatore che ha Liebmann di Jules Hermann. Presentato da noi all’interno della 30esima edizione del Festival MIX Milano (dov’è stato anche premiato) dalla giuria del Concorso Lungometraggi, il film si apre poeticamente e, a modo suo, in maniera “sfocata” per poi, fotogramma dopo fotogramma, inquadrarci la storia e, al contempo, continuare a spiazzarci fino alla fine. La regista tedesca costruisce, infatti, un’opera che destabilizza e sperimenta a tratti, divagando dal piano reale per «aprirsi ad una narrazione puramente filosofica» (dalla motivazione della giuria).
Antek (un bravissimo Godeard Giese) ha scelto di lasciare la Germania per qualcosa che lo tormenta e che il pubblico intuisce (e neanche subito), ma non si fa afferrare fino in fondo. L’uomo, ex-insegnante, vuole cambiare vita e si rifugia in un piccolo paese nella Francia del Nord. Inizialmente è abbastanza silenzioso – aspetto che viene giocato anche sul piano linguistico –  e sarà la vicina Geneviève (Adeline Moreau) con figlia piccola a seguito a cercare di scuoterlo corteggiandolo e riempendolo di attenzioni. Detta così, quello di Liebmann sembrerebbe banale e un plot molto classico, ma qualcosa bolle dentro Antek e in una sceneggiatura che vuole sorprendere e mettere in gioco diverse carte.
Il passato sarà davvero alle spalle? Basta partire per riuscire a mettere a tacere tutti i tormenti interiori dal sapore quasi bergmaniano?
La Hermann, alla sua opera prima, dimostra una buona padronanza della messa in quadro e di averla studiata come se fosse, in alcuni punti, un puzzle da ricostruire – vedi anche gli indizi che dissemina e da cui poi si apre l’inquadratura, quasi coerentemente con un’aurea di mistero che aleggia durante tutto il film. Nel bosco, infatti, sono stati ritrovati due cadaveri e la colpa viene attribuita di default ai cacciatori, a ciò si aggiungono i fili legati al nostro protagonista, con lampi del passato che tornano.
Riesce pure a rendere ibrida la stessa sceneggiatura con interludi particolari come una favola legata a una torta magica, senza dimenticare note di ironia e leggerezza che strappano sorrisi e abbassano la tensione.
Con buone idee visive, la regista riesce a comunicare tutta l’ansia che attanaglia Antek, il quale è attratto dalla foresta, anche di notte, e sorge il dubbio che possa essere una soluzione per rappresentare l’inconscio e lo spaesamento. Liebmann lascia in sospeso la platea di turno fino al capitoletto intitolato “L’inizio” che, potrà apparire, paradossale, ma arriva alla fine. Il resto tocca allo spettatore.

Maria Lucia Tangorra

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