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Les secrets de mon père

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VOTO: 7

Memoria storica trasmessa di generazione in generazione

In Les secrets de mon père, primo film di quel Future Film Festival 2022 attualmente in corso tra Bologna e Modena da noi visionato, la memoria storica è valore primario. In tutte le sue sfaccettature. E con gli inevitabili attriti, contraddizioni, tumulti interiori, destinati ineluttabilmente ad emergere quando gli episodi storici cui si fa riferimento sono così tragici, ed è maledettamente problematico – anche a livello emotivo – comunicarne l’essenza alle nuove generazioni.
Nel lavoro firmato dalla parigina Vèra Belmont, una lunga carriera alle spalle, riteniamo che ciò sia avvenuto in una forma molto matura, altresì schietta. Direttamente ispirata al racconto autobiografico del noto fumettista israeliano Michel Kichka, che oltre ai propri ricordi d’infanzia nell’Europa post-bellica vi aveva messo in gioco i drammatici trascorsi della sua famiglia durante la Seconda Guerra Mondiale, questa co-produzione franco-belga ha optato quindi per l’animazione, al momento di selezionare lo strumento più idoneo a tramandare il ricordo dell’Olocausto, dei campi di concentramento, del loro spaventoso (e spesso letale) impatto sugli esseri umani che caddero negli ingranaggi di una simile macchina di sterminio; ed è una scelta che va affermandosi sempre di più, nel cinema politico, memoriale e d’impegno civico, se si considera per esempio che anche nelle sale italiane verrà distribuito a breve l’attesissimo lungometraggio animato di Ari Folman, Anna Frank e il diario segreto.

Ma oltre alla memoria in sé, importante diventa il discorso del confronto generazionale, che può farsi aspro, complicato, scabroso, allorché i sopravvissuti almeno all’inizio si mostravano reticenti a parlare di quell’orrore, tanto che i loro figli e nipoti finivano per soffrire gli scompensi di tale rimozione. Meccanismi narrativi simili, volendo, a quelli di certe pellicole nipponiche sulla difficoltà, da parte dei più anziani, a spiegare ai ragazzi l’impatto sulle loro vite dell’entrata in guerra e/o delle bombe atomiche americane. In tal senso l’evento cinematograficamente – e antropologicamente – più bello, significativo, resta sempre per noi The Eternal Zero, memorabile blockbuster diretto da Takashi Yamazaki, cineasta particolarmente amato in Giappone ma con qualche sincero estimatore anche da noi.

Tornando a Les secrets de mon père, il tratto del disegno è semplice, “pastelloso”, tradizionale. Ma sa accogliere ora con naturalezza e ora con l’intento di visualizzare qualche forte contrasto interiore altri elementi, spuri a livello formale, quali possono essere le reali testimonianze fotografiche di Auschwitz, con il loro carico di orrore. Il film di Vèra Belmont funziona pertanto bene sia quando ricerca la leggerezza, nel tratteggiare la normale adolescenza di ragazzi assorbiti dai loro primi amori o da nuove amicizie nate in ambito scolastico, sia quando è costretto ad appesantire i toni, in occasione del prepotente ingresso in scena – anche su un piano prettamente onirico – del vissuto e delle comprensibili ansie di un padre sopravvissuto per miracolo ai campi di sterminio. Man mano che si evolve la narrazione in prima persona di uno dei quattro figli dell’ex deportato, ovvero Michel, quello che dopo un trauma famigliare non meno scioccante sceglierà Israele per rifarsi una vita, anche la cornice politica e sociale del racconto si amplia e si vivacizza, mettendo a fuoco dettagli importanti: dalle battutine antisemite ancora in uso tra studenti dei collegi e professori all’impatto mediatico del processo ad Eichmann, dall’atmosfera non sempre idilliaca del Belgio post-coloniale alla così peculiare esperienza dei Kibbutz in Medio Oriente. Sullo schermo le tecniche e lo stile dell’animazione non raggiungono quasi mai livelli superlativi, ma l’onestà dell’approccio e la ricchezza dell’impianto narrativo finiscono per compensare tali limiti, appassionando lo spettatore sia alla vicenda del protagonista che alla cornice storica.

Stefano Coccia

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