Un segreto (in)confessabile
Polonia, 1945. Mathilde, un giovane medico francese della Croce Rossa, è in missione per assistere i sopravvissuti della Seconda Guerra Mondiale. Quando una suora arriva da lei in cerca di aiuto, Mathilde viene portata in un convento, dove alcune sorelle incinte, vittime della barbarie dei soldati sovietici, vengono tenute nascoste. Nell’incapacità di conciliare fede e gravidanza le suore si rivolgono a lei, che diventa la loro unica speranza. Quella che avete appena letto è la sinossi che accompagnerà l’uscita di Les innocentes ( nella versione italiana Agnus Dei), nelle sale nostrane a partire dal prossimo novembre con Good Films. Nel frattempo, l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Anne Fontaine ha fatto una prima apparizione in Italia all’interno del cartellone della settima edizione del Bif&st, dove è stata accolta calorosamente dalla platea del Teatro Petruzzelli.
Quella porta sul grande schermo dalla regista lussemburghese non è, però, il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno, ma una storia drammaticamente vera, come vera e realmente esistita è la sua protagonista. Si tratta di Madeleine Pauliac e la pellicola, cambiandone il nome in Mathilde, racconta un episodio della sua vita. Dunque, Les innocentes non è da considerare un biopic, ma un capitolo romanzato nel mezzo dell’esistenza di una donna che ha lottato per salvare altre donne dagli orrori della guerra. Prima di morire accidentalmente nei pressi di Varsavia nel febbraio del 1946, la Pauliac portò a termine oltre duecento missioni con l’Unità dello Squadrone Blu delle autiste di ambulanza della Croce Rossa, che avevano lo scopo di cercare, curare e rimpatriare i soldati francesi rimasti in Polonia. È in queste circostanze che scoprì l’orrore nei reparti di maternità, dove i russi avevano violentato le donne che avevano appena partorito e quelle che erano in travaglio; gli stupri erano all’ordine del giorno, e ci furono addirittura stupri collettivi nei conventi. Lei si occupò di fornire aiuto medico a queste donne. Le aiutò a guarire le loro coscienze e a salvare il loro convento.
Questo spaccato di esistenza diventa il tessuto narrativo e drammaturgico dello script, ma anche la possibilità per la Fontaine di mettere in quadro un’altra storia il cui baricentro è sorretto da una o più donne. Nell’arco della sua carriera, infatti, l’attrice e regista ha puntato più volte su plot che vedono personaggi femminili vestire i panni di protagoniste assolute (da Nathalie a Coco Before Chanel, passando da Two Mathers sino al più recente Gemma Bovery), andando così controcorrente rispetto a un modus operandi ancora molto diffuso tra le cinematografie mondiali che vuole le donne rilegate a spalle del cosiddetto “sesso forte”, o nel peggiore dei casi a surrogati maschili (vedi gran parte della filmografia di Luc Besson) e a vittime sacrificali. La Mathilde de Les innocentes è si un’eroina del passato, animata da un coraggio e da un altruismo d’altri tempi, ma viene dipinta anche con i colori della timidezza, dell’insicurezza, della paura, dell’incertezza e della sofferenza. Tutto ciò la rende meno lontana e astratta, meno santino e più umana, poiché spogliata quasi totalmente di quella falsa veste elegiaca che solitamente avvolge gli eroi e le eroine del quotidiano, che nei decenni hanno e continuano a trovare spazio al cinema. Nelle sue debolezze, tanto quanto nelle sue virtù, è possibile tentare – riuscendoci – a immedesimarsi. Sono proprio il disegno del personaggio e le sfumature caratteriali che la scrittura prima e l’intensa interpretazione della talentuosa Lou De Laâge poi (vista di recente ne L’attesa di Piero Messina) hanno saputo restituire sullo schermo, a costruire le fondamenta del “ponte” empatico che unisce l’opera e al fruitore del momento (non solo femminile). Questo campo controcampo caratteriale è l’essenza e il vero punto di forza del film.
Questa volta i toni e i registri chiamati in causa sono però molto diversi rispetto a quelli con i quali la Fontaine si è misurata in passato. Qui ha dovuto fare i conti con un dramma in costume, che scava in una memoria vera e non artificiale. Ciò che vediamo e sentiamo nelle quasi due ore di timeline viene da un’esperienza realmente vissuta, che porta con sé ferite e lacerazioni profonde nel corpo quanto nella mente. Per cui, le responsabilità erano quadruplicate, ma il risultato finale si è dimostrato all’altezza, costantemente rispettoso della vicenda narrata, di coloro che l’hanno affrontata e dovuta subire. E davanti a certe immagini del film è impossibile non ritornare con la mente agli stupri etnici perpetrati durante i conflitti nell’Ex Jugoslavia o in Rwanda. Perché si sa la Storia, soprattutto quella “sporca” e malvagia, purtroppo si ripete e non si dimentica.
Francesco Del Grosso