La cerimonia
Terza opera per il giovane filmmaker iraniano Saeed Roustaee, Leila’s Brothers, in concorso a Cannes 2022, offre un nuovo, inedito, impietoso ritratto della società persiana attuale. Il regista mostra da subito immagini di manifestazioni di lavoratori, scontri con la polizia. Nulla a che vedere con i conflitti ideologici sempre presenti, per i diritti civili, magari di protesta per l’imposizione del velo islamico, contro il soffocante regime teocratico. Ciò che ci arriva di solito da quel paese. Tutto quello che succede in Leila’s Brothers ha motivazioni economiche. In una scena del film vediamo il faccione di Donald Trump in una televisione. Il messaggio è chiaro: le vicissitudini dei protagonisti, legate alla sopravvivenza, a questioni finanziarie, sono parte della posizione internazionale del paese, soffocato dalle sanzioni con la conseguente recessione e svalutazione della moneta. Leila’s Brothers è incentrato su una vicenda famigliare che vede una donna quarantenne, Leila, che vive con i suoi quattro fratelli e l’anziano padre. I figli cercano di trovare il modo di destreggiarsi, nella precaria situazione economica, nella difficoltà a ottenere prestiti, a mettere insieme qualche, anche fatiscente, business.
Leila’s Brothers è una straordinaria opera corale che si fonda sul conflitto generazionale, in un contesto ancora fortemente patriarcale dove sono importanti le ritualità, le celebrazioni. Mentre i figli hanno una mentalità di piccolo capitalismo, con velleità imprenditoriali, prendere un negozio in un centro commerciale, anche per mere questioni di sopravvivenza, il padre, anziano, vive in un mondo tutto suo. Si scopre che un tesoretto famigliare, che sarebbe stato molto utile per uscire dalla stagnazione di cui sopra, è stato impiegato dal lui nelle sue manovre, foraggiando il matrimonio di un parente, per raggiungere la carica di patriarca del clan, che è il più alto onore nella tradizione persiana. La casa dei protagonisti è una casa povera, disordinata, dove tutti i fratelli dormono insieme, dove tutti i pavimenti sono rivestiti degli immancabili tappeti persiani, dove non ci sono stanze e pareti divisorie e tutti gli spazi sono in comune. A questa contrasta la lunga e incredibile scena della festa, di matrimonio del cugino, sfarzosa, pacchiana, in un ambiente elegantissimo. Quasi una notte degli Oscar con tanto di applausi. Il tutto per una cerimonia falsa, come nel film La cerimonia, di Nagisa Oshima. Un padre, che vive una senilità difficile, che viene colto mentre urina nel lavabo, per esempio, è ancora in grado di imporre i suoi voleri sulla vita dei figli come ha sempre fatto, per esempio quando in passato aveva impedito un matrimonio a uno dei loro. Nella figura dell’anziano genitore si può vedere forse il rappresentante di una società, che è ormai vecchio, accentratore, che ha fatto il suo tempo ma che si ostina a comandare e opprimere.
È un Iran strano e spiazzante quello raccontato da Saeed Roustaee, diverso da ogni stereotipo cui ci ha abituato anche tanto cinema di quel paese. Dove si beve coca cola, si mangiano merendine preconfezionate in confezioni di plastica e si sognano le spiagge thailandesi di Pattaya. Ma dove il semplice fatto di scattare una foto si connota di significati tradizionali. E dove facilmente si può scatenare una rissa, segno di una tensione latente, quando in televisione si erano pure visti, oltre a Trump, incontri di wrestling. Non è cinema politico in senso stretto, come molti prodotti, spesso anche falsi e ipocriti, che vengono realizzati da registi espatriati e non. E il finale, con gran presenza di bambini, segna la possibilità di un nuovo passaggio una volta che la vecchia generazione dei patriarchi avrà ceduto il passo.
Giampiero Raganelli