Una miscela di “mistery” e sociale, dall’esito letale
Parafrasando Caterina Caselli, un parodico “Le verità ti fanno male, lo so” potrebbe essere la tagline ideale, qualora uno voglia mettere in guardia lo spettatore dall’esito incerto, sbilenco, che ci sentiamo di attribuire a questa poco felice contaminazione di racconto del mistero e cinema d’impegno sociale. Del resto pare che il regista Giuseppe Alessio Nuzzo, classe ’89 (la giovane età fa quindi sperare che col tempo possa migliorare le proprie risorse espressive), con certe tematiche qualche confidenza ce l’abbia, essendo anche direttore generale del “Social World Film Festival”, mostra internazionale del cinema sociale. Tali istanze le ha volute trasferire, però, su di un terreno bene o male affine al cinema di genere, le cui coordinate di base non sembrano essere da lui dominate con sicurezza e smalto. Ne è uscito fuori, insomma, un ibrido alquanto sconclusionato.
Il contorto plot del lungometraggio d’esordio di Giuseppe Alessio Nuzzo si muove infatti da una ormai classica cornice di disagio lavorativo, che vede un “padre padrone” (di fabbrica) trattare gli operai da vero negrerio, ed il figlio più sensibile appena tornato da una proficua trasferta di lavoro in India (quel Gabriele interpretato da un Francesco Montanari più spaesato che mai) quasi costretto a seguirne le orme, attraverso la richiesta del padre di sfoltire radicalmente il numero dei dipendenti, a partire da quelli più anziani. Il delicato tema delle cosiddette “risorse umane”, che di recente aveva offerto ispirazione a un autentico gioiellino come La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi, ristagna per l’occasione nei meandri di una delirante trama in cui vengono affastellati sin dall’inizio strani incidenti, figure ambigue, premonizioni e altri accadimenti misteriosi. Thriller soprannaturale all’italiana? Più che altro pastrocchio. A partire dai dialoghi, che rendono risibili gli stessi sub-plot sentimentali corredati di gelosie, tradimenti improbabili e fascinose straniere (la turca Aylin, impersonata da una invero magnetica e sensuale Anna Safroncik) comparse apparentemente dal nulla. Per non parlare poi di quel montaggio tendenzialmente epilettico, cui sono affidati i tanti segmenti allucinatori: il più delle volte un semplice fastidio per gli occhi. E così, viste anche certe presenze di prestigio nel cast, da Maria Grazia Cucinotta a Renato Scarpa fino ad altri “camei” eccellenti, prende corpo l’idea di un film che ha potuto beneficiare di appoggi importanti, sì, senza che alla base vi fossero un’ispirazione cristallina e una sufficiente maturità registica.
Stefano Coccia