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Le cose che verranno

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VOTO: 7

“Una” filosofia per la vita

La regista francese Mia Hansen-Løve ha una delicatezza e un tatto nel raccontare e mettere in quadro che si riconosce sin da subito. Dopo esser stato insignito dell’Orso d’Argento all’ultimo Festival di Berlino, alla 34esima edizione del Torino Film Festival è stato possibile vedere, in anteprima, l’ultimo lavoro della regista d’Oltralpe, L’avenir (nella versione italiano Le cose che verranno).
Una donna (una charmant Isabelle Huppert), docente di filosofia (e non è un dettaglio), conduce tranquillamente la sua vita a Parigi. Col marito (André Marcon) divide l’interesse per la materia filosofica e purtroppo sembra che tutto si sia esaurito lì e nel ricordo dell’impegno politico vissuto da ragazzi che han partecipato attivamente al Sessantotto.
Nel film si respira molto l’aura di pensatori come Pascal, Rousseau, Lévinas e non solo, ma lo si fa attraverso gli insegnamenti di Nathalie ai suoi alunni e nella vita di tutti i giorni. Molto bello e interessante è il seme lanciato in un alunno (Roman Kolinka) con cui instaurerà un rapporto dagli esiti non scontati. Nel portare avanti una vita tranquilla, spesso caratterizzata dalla routine, arriva un fulmine a ciel sereno. «Dopo i quarant’anni le donne sono da buttare», ascoltiamo a un tratto ed è una considerazione a cui si è costretti ad arrivare quando il proprio consorte sceglie di lasciarti per un’altra, il più delle volte più giovane. Le restano i due figli, ma come ben ci suggeriscono le ellissi temporali, si cresce e ciò vuol dire che i giovani devono fare la propria vita. La regista francese è abilissima nel sviluppare questo elemento che appartiene al ciclo vitale declinandolo su due linee. Da un lato la madre che deve lasciar andare, assistendo alla vita dei due figli nella misura in cui la coinvolgono (anche nel far la nonna); dall’altro la professoressa che, nell’incontro con l’ex alunno preferito, deve fare i conti con l’altro (comprese le idee altrui).
«Quando scrivo mi preoccupano il ritmo, la musicalità e un sacco di altre cose, ma quasi mai la mancanza di informazioni sulla “psicologia” dei personaggi. Di solito, ciò che bisogna sapere emerge da sé, nella narrazione, senza bisogno di essere spiegato. In realtà, nella scrittura e attraverso l’editing cerco di rimuovere più informazioni possibili», ha dichiarato la regista di Eden (2015). Questa coerenza di approccio la si avverte anche ne L’avenir, in cui la vita dei personaggi, con le fragilità e le paure, emerge come se fossero persone in carne ed ossa che si incontrano nella nostra vita di tutti i giorni. La differenza è che qui, grazie a una sublimazione del linguaggio cinematografico,
La Huppert calza a pennello il ruolo di una donna cinquantacinquenne che si trova a elaborare un senso di abbandono crescente, quel sentimento di cui – racconta – ha sofferto sua madre per tutta la vita. In parte, facendo quella riflessione, sta anche parlando di sé in quell’istante. Se in Un’amore di gioventù (2012), la protagonista, Camille (Lola Creton), era alle prese coi primi amori, qui Nathalie deve impastare le mani nell’emotività, con i turbamenti che le provoca ciò che le accade intorno anche quando pensava che tutto fosse assodato e sotto controllo.
Possono la logica e la filosofia fornire gli strumenti per affrontare tutto ciò? Queste discipline (ed è riduttivo chiamarle così) hanno un concreto riscontro nel quotidiano e possono sposarsi con le emozioni?
Nathalie risponde a suo modo a queste domande, compiendo un viaggio, soprattutto ideale, in cui assapora qualcosa (forse) di remoto o mai conosciuto. Molto frequentemente si parla di futuro in relazione alle giovani generazioni (e ai problemi che hanno e avranno), ed è interessante che con L’avenir si sia voluto affrontare l’argomento da quest’ottica, evitando di cadere in cliché.

Maria Lucia Tangorra

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