I boss di Hollywood, della Hollywood dei tempi d’oro, sapevano come fare. Riuscivano sempre a modellare un immaginario assecondando le esigenze del pubblico. L’equazione in fondo era facile: si immedesimavano totalmente nello spettatore pagante. E siccome i produttori erano tutti uomini – anche piuttosto maschilisti, dati i tempi – pure il grande schermo avrebbe dovuto regolarsi di conseguenza. La bellezza femminile rappresentava dunque l’esca per attirare gente al cinema. Qualora le attrici avessero saputo anche recitare sarebbe stato un optional in più, gradito ma senza esagerazioni. Qualche esempio. C’era Marilyn Monroe, la bionda svampita e rassicurante, capace di aprire la porta di casa all’uomo insoddisfatto “quando la moglie è in vacanza“. La donna-bambola da poter plasmare a piacimento secondo i desideri dell’uomo pigmalione. C’era poi la bellezza aggressiva della bruna Jane Russell, decisa e ferma. In grado di “scaldare corpi maschili” nel momento del bisogno grazie alla sua sensualità dirompente. La classica donna da letto per pochi eletti, con la quale vivere un periodo più o meno breve di estasi carnale. Infine l’eterno femminino (Goethe docet), la rossa Rita Hayworth, femme fatale capace di obnubilare il maschio in amore attraverso una nuvola di fumo da tabacco e baciarlo in uno di quegli attimi che vale una vita intera. Quale fosse il suo background non sarebbe stato lecito conoscerlo, il mistero era parte integrante di lei, della propria femminilità al quadrato.
Correva l’anno 1944 quando sui grandi schermi d’America si affacciava una figura femminile che sfuggiva ad ogni tentativo di catalogazione. Era lei e basta. Fu ampiamente notata nonostante gli ultimi bagliori della guerra. Si chiamava Betty Joan Perske, aveva appena vent’anni ma per tutti sarebbe diventata Lauren Bacall. All’esordio nel film Acque del Sud subito si trovò di fronte un divo della portata di Humphrey Bogart, allora quarantacinquenne. Seppe tenergli testa in maniera sorprendente dal punto di vista della recitazione. E non solo. Bogart s’innamorò di schianto, ricambiato. Perché quando trovi il compendio di te stesso, non può che finire così. Nacque la più struggente storia d’amore made in Hollywood, forse alla pari di quella, quasi coeva, tra Katharine Hepburn e Spencer Tracy. Un film nel film. Fautore involontario dell’unione un regista, tale Howard Hawks. Semplicemente uno dei due o tre venerabili totem tra i cineasti del periodo. Comprese immediatamente l’alchimia e li rivolle prestissimo insieme, Bogart e Bacall oppure Bacall e Bogart. Non importa, poiché ormai erano già una cosa sola. Vide la luce Il grande sonno (1946) dal romanzo di Raymond Chandler. Il cinema non sarà mai più lo stesso. Il puzzle della narrazione logica – conditio sine qua non del cinema del tempo – va in frantumi dopo sessanta secondi di film. Tutto il resto è affidato al singolo spettatore, alle sue capacità di riflessione e soprattutto al suo inconscio. Sarebbe stato interessante osservare il giovane David Lynch durante la prima visione de Il grande sonno. Intanto Philip Marlowe (Bogart) e Vivian Rutledge (Bacall) sullo schermo si conoscono, fumano sigarette e si parlano, non necessariamente in quest’ordine. Soprattutto si guardano. Ed è proprio attraverso i loro sguardi che è possibile risolvere il mistero altrimenti quasi insolubile del film.
Comunque, la schermaglia degli sguardi è vinta a mani basse da Lauren Bacall. La quale diventa “The Look“. Nascita ufficiale di un mito ed anche di una grandissima interprete, alla quale nessun genere cinematografico è precluso in partenza. Con innata eleganza lascia la sua inconfondibile traccia nella commedia – Come sposare un milionario (1953) di Jean Negulesco, dove recita accanto a Marilyn e Betty Grable, due icone dell’immaginario maschile. Voi chi scegliereste? Non è che i dubbi siano poi molti… – il melodramma purissimo con critica sociale incorporata – Come le foglie al vento, dell’immenso Douglas Sirk, girato nel 1956 – e finanche il crepuscolo del western classico, con Il pistolero (1976) del mitico Don Siegel, accanto al Dio del genere John Wayne.
Nel frattempo, nel 1957, Bogart lascia la vita terrena e il loro amore sopravvive solo in quei magnifici occhi dal colore oscillante tra il grigio e il verde. La carriera di mrs. Bacall, invece, continua, illuminando anche in tarda età ogni pellicola con il magnetismo della sua presenza (in)discreta. Arriva persino la prima ed unica candidatura all’Oscar come attrice ovviamente non protagonista nel peraltro pasticciato L’amore ha due facce (1996) di Barbra Streisand. Compare, ancora provvista di fascino devastante, nell’intrigante Birth – Io sono Sean (2004) del mai banale Jonathan Glazer. Si ricorda poi di lei il cultore del cinema classico Lars von Trier, che vorrebbe fare a pezzi l’american way of life in generale ma poi lo omaggia esplicitamente inserendo l’iconica Bacall nel cast di Dogville (2003) e Manderlay (2005). Nel 2010 la statuetta finalmente arriva, ma come riconoscimento ultimo ad una carriera ineguagliabile.
Insomma, una storia da diva non solo di superficiale immagine, dedicata alla Settima Arte fino all’ultimo respiro. Lauren Bacall si è spenta il 12 agosto 2014. Ma quello sguardo non si esaurirà mai, sul grande o piccolo schermo, poiché ha coinciso in maniera pressoché perfetta con il fascino sempiterno del Cinema.
Daniele De Angelis