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L’albero dei frutti selvatici

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VOTO: 7

L’albero cui tendevi l’anatolica mano

Sin dagli esordi (il suo terzo lungometraggio Uzak, del 2002, è quello che gli ha spalancato le porte della notorietà internazionale, avendo ricevuto il Grand Prix Speciale della Giuria e il premio per la migliore interpretazione maschile al 56º Festival di Cannes), il turco Nuri Bilge Ceylan si è imposto all’attenzione tanto per l’accuratezza della ricerca formale che per lo spessore dei temi trattati. Col tempo, magari, è la durata delle sue opere che è andata aumentando, vedi ad esempio le due ore e mezza di C’era una volta in Anatolia (2011) e le tre ore e un quarto de Il regno d’inverno – Winter Sleep (2014). Con L’albero dei frutti selvatici (Ahlat Agaci), presentato ugualmente al Festival di Cannes nella scorsa edizione (ma accolto con minore entusiasmo del solito), stazioniamo ancora una volta sulle tre ore. Eppure, sembrerebbe che nel cinema così stilisticamente curato di Ceylan non vi sia traccia di prolissità. Perché in fondo le raffinate impalcature formali delle sue opere, ridondanti di citazioni letterarie e cinematografiche, sono anche il tracciato su cui scorrono le parabole di personaggi estremamente vivi, autentici, capaci di generare interesse nello spettatore anche per il loro essere inseriti con naturalezza nelle dinamiche sociali, culturali e politiche della Turchia contemporanea.

Per quanto L’albero dei frutti selvatici non sia probabilmente tra i suoi film più ispirati, Nuri Bilge Ceylan è riuscito anche qui a concepire un’opera stratificata, leggibile a più livelli, in cui è un tesissimo confronto generazionale ad emergere con maggior incisività. L’epicentro narrativo coincide con la vicenda di Sinan (Dogu Demirkol), un giovane appassionato di letteratura che ha sempre desiderato diventare uno scrittore e che, tornando nel villaggio d’origine, si impegna anima e corpo per raccogliere il denaro necessario a farsi pubblicare il primo libro. Ma i debiti e la condotta spregiudicata del padre, assieme alla grettezza dei circoli culturali e del mondo politico circostante, rendono assai difficoltoso il concretizzarsi di questo sogno… senza contare che anche il carattere spigoloso del ragazzo non aiuta.
La famiglia. L’atto creativo. La passione amorosa. Gli scontri generazionali. La corruzione. Il mesto confronto tra regioni del proprio paese evolutesi diversamente. Sono tanti i temi importanti, coi quali la così intensa scrittura filmica di Ceylan prova a confrontarsi. Forse troppi. Fortunatamente la nutrita e riuscita galleria di personaggi con cui il protagonista ha a che fare, tra diatribe famigliari e questioni di buon vicinato, tra possibili modelli letterari e grigi rappresentanti delle istituzioni, ha buon gioco nell’assicurare una forte tensione dialettica alla pur lenta progressione narrativa, orchestrata peraltro intorno a repentine ellissi che segnano i successivi ritorni del ragazzo in paese. Ne è un esempio lo speculare, paradigmatico confronto tra lo stile di vita dell’imam più anziano (parente di Sinan) e quello del giovane successore, quasi un raddoppiamento dell’incontro/scontro tra generazioni posto in atto nell’opera.
Allontanandosi dalla sua Istanbul e facendo sprofondare il proprio cinema negli aspri territori dell’Anatolia, Nuri Bilge Ceylan continua a cogliere fermenti molto attuali, tensioni genuine, per quanto l’irrigidirsi di alcune scelte stilistiche (qui, ad esempio, la ruvidezza con cui si passa dalla realtà a breve segmenti onirici) contribuisca a diluire un po’ il potenziale di certi comparti narrativi, che hanno invece nella sapiente costruzione dei dialoghi e nello studio certosino delle inquadrature un indiscutibile punto di forza. Fuori da ogni retorica. Perché poi, come risulta da una delle sequenze più emblematiche dell’intero lungometraggio, il regista (al pari del suo protagonista) pare avere a cuore il carattere fiero del pero selvatico che cresce in quelle regioni, non il monumentale cimitero di guerra costruitovi intorno e così caro invece alle autorità.

Stefano Coccia

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