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Labyrinth of Cinema

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VOTO: 9

Il lungo addio

Nobuhiko Obayashi è un cineasta che ci ha fatto sognare. Sempre. In tutti i mo(n)di possibili. Perché la macchina-cinema intesa quale portale di sogni (e di incubi: vedi il primigenio e orrorifico House, datato 1977) ha potuto contare, grazie al suo approccio disinvolto e leggiadro, su una vena immaginifica personale e pressoché inesauribile.
Purtroppo il cineasta giapponese si è spento a Tokyo il 10 aprile 2020. Prima, però, ha fatto in tempo a lasciarci un’opera che, tanto per la sua fluviale generosità (e nessuno si lasci scoraggiare dalla durata “monstre”, poiché immergersi nelle tre ore circa di montato è davvero un’esperienza unica) che per la riconferma di un lodevole afflato umanista, non può certo sfuggire all’etichetta di film-testamento: Labyrinth of Cinema.
Ed è molto bello che il 22° Far East Film Festival, oltre a proiettarlo in streaming, abbia reso omaggio al suo autore con sincera commozione. Lo ha fatto innanzitutto attraverso le parole di Mark Shilling, critico attivo in Giappone e selezionatore della kermesse friulana, che lo aveva incontrato un’ultima volta in occasione del Tokyo Film Festival. Ma altrettanto intenso è stato il ricordo di Sabrina Baracetti del Gelso d’Oro alla carriera consegnatogli pochi anni fa, nel 2016, coi richiami anche gestuali del regista ad un mondo di Peace & Love a caratterizzare la premiazione.

Veniamo comunque al film, che di motivi di interesse ne ha davvero tanti. Florilegio di citazioni letterarie, memorie storiche e ammiccamenti cinefili d’ogni tipo, Labyrinth of Cinema è un avventuroso viaggio (verrebbe da dire “Il lungo addio” di Nobuhiko Obayashi, prendendo in prestito il titolo da un leggendario albo di Dylan Dog) che ha origine giustamente in un ambiente portuale, quello di Onomichi nella prefettura di Hiroshima. Onomichi è il paese d’origine del regista. E ciò che invece accadde ad Hiroshima il 6 agosto 1945, fosco orizzonte degli eventi, può essere inteso anche quale naturale sbocco di una narrazione disarticolata, ispirata, rapsodica (Rapsodia d’agosto…) che attraversa tanta Storia dell’Arcipelago Nipponico in modo sicuramente naïf, tale però da mantenere saldo il timone di una poetica solidale e intrisa di moniti contro la guerra. In sintonia quindi con quelle posizioni umanitarie e antibelliche già espresse dall’autore in svariati titoli della sua eccentrica filmografia.

L’altro elemento preponderante è, assieme a una delicata ironia, la celebrazione del cinematografo quale autentico spazio di libertà. Fantasia al potere. Il racconto prende il via non a caso in un vecchio cinema di Onomichi, il già menzionato paese natio dell’autore, per proiettare poi i giovani protagonisti direttamente sullo schermo, dove balzando da una cornice all’altra sperimenteranno una costante ricerca d’amore e pericoli d’ogni sorta, ispirati spesso a tragici eventi storici (vedi l’occupazione giapponese della Manciuria) ma realizzati prendendo in prestito i più svariati generi cinematografici e cliché letterari. La favolistica leggerezza con cui Obayahi si è mosso tra spunti metacinematografici e tracce narrative di natura diversa può ricordare, volendo, quella del non meno rimpianto Satoshi Kon in Millennium Actress, lungometraggio animato di pregevolissima fattura. Del resto l’ardito collage di immagini che viene a comporre Labyrinth of Cinema ravviva (seppur con toni crepuscolari) un’estetica che vi aveva fatto ricorso sin dagli esordi, fa fede nuovamente il grottesco e dadaista House. Come dire l’Alfa e l’Omega di una filmografia che ha saputo deliziarci visivamente per poi prendere commiato dal pubblico, con questo vertiginoso epilogo, in un’atmosfera onirica tesa a condannare le follie della guerra e celebrare al contempo l’insopprimibile vitalismo dei sentimenti e del cinema.

Stefano Coccia

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