Solo contro il mondo
Una misteriosa guerra batteriologica ha cambiato per sempre il mondo in cui viviamo. Questo, tuttavia, è successo ormai da molti anni. Ma cosa ne è stato, nel frattempo, dei sopravvissuti? E, soprattutto: cosa ne è dei loro figli? Il regista Claudio Cupellini ha messo in scena uno straniante futuro distopico in La terra dei figli, appunto, tratto dall’omonima graphic novel di Gipi e ambientato in una sorta di “non luogo”, di “Terra di nessuno”, dove l’istinto alla sopravvivenza spinge la gente a non fidarsi di nessun altro e a evitare di affezionarsi realmente a qualcuno.
Questo, ad esempio, è anche il caso di un padre e un figlio che vivono su di una palafitta presso una laguna. Il ragazzo è nato dopo la suddetta guerra batteriologica e non ha idea di come fosse il mondo prima della sua nascita. Un giorno, tuttavia, suo padre muore improvvisamente. Il giovane trova un quaderno su cui il genitore era solito appuntare le sue memorie. Cosa ci sarà mai scritto? Il ragazzo, infatti, non ha mai imparato a leggere e le uniche persone in grado di aiutarlo hanno più o meno l’età di suo padre. Persone che hanno avuto modo di vivere in prima persona “il vecchio mondo”. Avrà inizio, così, un lungo peregrinare “al di là della chiusa”, al fine di trovare qualcuno disposto finalmente ad aiutarlo.
La terra dei figli è, innanzitutto, un solido e robusto romanzo di formazione. Un romanzo di formazione mai banale o scontato, che ci racconta la fine della civiltà, ma anche l’importanza degli affetti, dei rapporti interpersonali. E, soprattutto, quanto sia difficile affrontare il mondo degli adulti senza “farsi male”. Il giovane protagonista è stato cresciuto da un padre severo, sebbene molto amorevole. Gli è stato insegnato che non bisogna mai piangere o lasciarsi andare, dal momento che qualcuno potrebbe approfittarsene. Eppure, nonostante gli insegnamenti ricevuti, è sempre difficile rapportarsi per la prima volta al mondo, alla vita.
Questo ultimo lungometraggio di Claudio Cupellini ci mostra una realtà ruvida, cruda, spesso estremamente dolorosa. Una realtà che non ci viene in alcun modo edulcorata e che viene resa alla perfezione sullo schermo da una regia il più possibile realista ed essenziale e da una fotografia dai colori fortemente contrastati. La natura (quasi) incontaminata si contrappone fortemente ad anguste fabbriche abbandonate. E ciò che ne viene fuori è un retrogusto “underground”, rétro e postmoderno allo stesso tempo, che contribuisce ulteriormente a conferire al tutto un forte senso di straniamento. Non ci si orienta facilmente nel mondo messo in scena da Cupellini. E analogamente a quanto accade al protagonista, anche lo spettatore si sente spaesato, disorientato, scopre pian piano nuove e inaspettate realtà.
C’è una speranza di salvezza per tutti noi? Forse, in modo (non troppo) scontato, solo l’amore potrà davvero salvarci. E comprenderlo appieno dopo un lungo e doloroso percorso di formazione non privo di ostacoli può essere davvero un’esperienza piacevolmente liberatoria.
Marina Pavido