Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco
Be careful of the cat. Don’t say you have the cat in the sack when you don’t have the cat in the sack
Giovanni Trapattoni
Ci siamo concessi anche questa “licenza poetica”. Abbiamo scomodato un motto di trapattoniana memoria, non dire gatto se non ce l’hai nel sacco, per introdurre con felina giovialità la rapidissima uscita (appena due giorni, il 9 e il 10 febbraio, come avviene solitamente per questi eventi speciali) dell’ennesimo gioiellino targato Studio Ghibli, anch’esso ripescato e distribuito nelle sale italiane dalla Lucky Red: La ricompensa del gatto, lungometraggio d’animazione diretto nel 2002 da Hiroyuki Morita. Un recupero magari non essenziale, a detta di alcuni, ma che ha saputo conquistarci ugualmente attraverso la leggerezza del racconto, l’impronta delicata di certe situazioni, il tono un po’ naif usato per introdurre i personaggi e le diverse realtà che essi attraversano. Dal mondo degli umani fino al misterioso, pittoresco Paese dei Gatti. Quasi un universo parallelo, cui la giovane protagonista accederà come ricalcando quel percorso iniziatico, già presente nel possibile prototipo di tutte queste storielle fantastiche: Alice’s Adventures in Wonderland di Lewis Carroll.
C’è però un aspetto di questa edizione italiana, che anche stavolta è destinato a generare discussioni: l’adattamento dei dialoghi di Gualtiero Cannarsi. Le sue traduzioni sono ormai note per il vezzo, motivato da pretese filologiche, di intervenire sull’originale giapponese trasferendone il senso in un italiano che suona deliberatamente letterario, aulico, lambiccato; insomma, desueto nel lessico e un po’ contorto nella sintassi. Con esiti che in certi frangenti possono anche risultare grotteschi. Ebbene, visibilmente perplessi per il livello di cerimoniosità raggiunto qui da alcuni scambi di battute, ma anche divertiti dalla vicenda, abbiamo deciso di rapportarci alle scelte del buon Cannarsi in modo volutamente, spensieratamente ironico; abbiamo cioè deciso di proseguire il nostro articolo scimmiottando proprio quell’approccio arcaico al linguaggio.
Come a dire: chi di termini aulici ferisce, di termini aulici perisce!
Orsù, desistiamo dal tergiversar attorno a tali congetture. Ancor detto non vi abbiamo che ne La ricompensa del gatto non solo al tono gentile della fabula, al suo incedere aggraziato, si è dato peso; ma anche ai cromatismi pastosi, a quelle scenografie delicatamente sfumate (con minor scrupolo nel cesellar dettagli, invero, rispetto agli usi cui lo Studio Ghibli abitua), come a sottolineare la cangiante natura dei mondi ai quali la nipponica pulzella Haru, protagonista delle mirabolanti peripezie ivi narrate, recherà visita.
Toh, un gatto non veduto! E dalla bizzarra postura. Ben presto il mistero si infittisce. Sin dalla sorprendente epifania di felini dalle magiche movenze, avvezzi persino all’andatura bipede di umana stirpe, la sonnacchiosa e distratta esistenza di Haru coi perigliosi, incredibili mutamenti, culminati nel ratto (qui nell’accezione non di topo, ma di improvvido rapimento) da parte del tronfio Re dei Gatti, si dovrà immantinente confrontare. Ma assieme al coraggio è l’apparir di un tosto, di un ineffabile giustiziere similmente dotato di insolite sembianze, il Barone, a cavarla dagli impicci!
Cotanta generosità di sentimenti, cotanta tenerezza, a uno stornello animato che dell’avventura il gusto non rinnega, vieppiù si addice.
Stefano Coccia