Terapia di gruppo
L’occasione si sa fa l’uomo ladro e il passaggio nel concorso lungometraggi della quinta edizione del Prato Film Festival ci serve su un piatto d’argento quella per recuperare La prima volta (di mia figlia), l’opera prima firmata da Riccardo Rossi che, all’epoca dell’uscita nelle sale nel marzo del 2015, sfuggì alla nostra analisi critica a causa dell’alta concentrazione di titoli distribuiti in un periodo solitamente molto affollato. Del resto, le vetrine festivaliere servono anche a questo.
Per il suo esordio dietro la macchina da presa, il noto comico e attore capitolino sceglie di raccontare le difficoltà e le gioie dell’essere padre, attraverso il personaggio di Alberto, un medico della mutua separato da dieci anni che un giorno uguale a tutti gli altri scopre dal diario della figlia quindicenne che la sua bambina adorata ha progettato da lì a breve di perdere la verginità. Deciso a combattere per non far accadere il “fattaccio”, organizza una cena con una cara amica ginecologa che lavora al consultorio, esperta di adolescenti, con la quale vuole provare a dissuaderla. Ma i tre non saranno soli, al loro tavolo si andranno ad aggiungere indesiderati e inaspettati commensali dell’ultimo minuto, ossia l’inopportuno marito della ginecologa e una psicologa collega di Alberto. Le cose quindi non andranno come sperato e quella che doveva essere una cena “istruttiva” si trasformerà in una sorta di grande seduta di “terapia di gruppo” che cambierà per sempre il rapporto tra padre e figlia.
A raccontarci il tentativo maldestro è lo stesso Rossi che, tra un impegno e l’altro sul piccolo e grande schermo ha trovato il tempo per esordire alla regia, ritagliandosi anche il ruolo di protagonista in questa tragicommedia degli equivoci. Di fatto, con lui la lista di attori e comici che hanno provato l’esperienza della regia si allunga ulteriormente e nel suo caso con un risultato sufficiente, anche se la pellicola presenta più di una problematica, a cominciare dalla scarsa originalità del plot. La storia di un padre che prova con tutti i mezzi leciti e illeciti a disposizione per impedire o ritardare il più possibile il primo rapporto sessuale della figlia ha innumerevoli precedenti che non stiamo qui a elencare, uno su tutti Mon père, ce héros del collega transalpino Gérard Lauzier. Il tutto in un impianto drammaturgico che, per impostazione e ambientazione scatologica, sembra avere origini teatrali che invece non ha nel proprio DNA. A togliere ulteriormente originalità al racconto c’è poi l’idea, negli ultimi mesi molto gettonata dalle nostre parti, di trasformare delle cene tra amici e familiari (Nessuno si salva da solo, I nostri ragazzi, Perfetti sconosciuti e Il nome del figlio) da momenti conviviali a occasioni di analisi psicologiche corali, dove parlare degli e con gli altri serve a capire anche più di una cosa su e di se stessi. Ed è quanto accade ai protagonisti de La prima volta (di mia figlia), che ricordano e si soffermano a riflettere sul tema unico e dominante della prima esperienza sessuale: lieta o sgradevole, romantica o frettolosa, da ricordare o da dimenticare. Lo spigoloso, delicato e per molti imbarazzante argomento, monopolizza l’intero racconto, mettendo totalmente in secondo piano il confronto generazionale padre-figlia che, anche se logoro, finisce sempre con il riservare piacevoli spunti di riflessione.
Film scaltro più che ingegnoso, agile sul versante dialogico e con un buon ritmo nei tempi comici, La prima volta (di mia figlia) s’appoggia soprattutto sull’attrito tra i caratteri che siedono intorno alla tavola, affidati ad altrettanti attori in forma (Stefano Fresi nella parte di Giovanni, marito della ginecologa) che divertono e si divertono, ad eccezione di Rossi che nei panni di Alberto continua a proporre sempre lo stesso personaggio, calandosi nell’ipocondriaco di turno, ossessionato dalla pulizia, dall’ordine e dalla precisione sul lavoro, in un urticante compendio delle maschere verdoniane dei bei tempi che furono.
Francesco Del Grosso