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La Napoli di mio padre

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VOTO: 8

Ai nostri padri

Venti minuti di emozione. Di un documentario breve costituito di vivide parole sovrapposte ad esemplari immagini di repertorio, in cui due entità teoricamente separate si fondono in perfetta armonia. La Napoli di mio padre – realizzato dalla regista e sceneggiatrice Alessia Bottone – vorrebbe essere assieme un sentito omaggio alla figura paterna e un’ode ad una città in perenne e costante mutazione nel corso del tempo, al pari delle persone che la vivono. E tuttavia non è solo questo. Perché l’opera riesce a rompere i confini del personale divenendo discorso universale, raccontando di viaggi, di scelte obbligate e non, di migrazioni verso altre realtà. Giuseppe Bottone, il papà della regista, diviene, filtrato dallo sguardo amorevole della figlia, archetipo di pura umanità. Un uomo che ha conosciuto lo sradicamento dalla città natale, appunto la Napoli del titolo, quella del popolare quartiere Vicaria, autentico bozzolo brulicante di vita. Un uomo in consapevole controtendenza rispetto alla mediocrità contemporanea, il quale ha preferito partire piuttosto che arrivare, secondo la felice descrizione delle parole pronunciate nel film. Un uomo come tanti, nell’immaginario generale. Unico ed ideale, se si approfondisce il discorso.
La Napoli di mio padre non è un’opera di memoria nostalgica. Bensì di ricordo attivo, soggettivo che si rende plurale. La necessità della migrazione trascende dal personale per farsi istanza generale, pur nella sua irreversibile unicità. Un tempo non lontano gli italiani sono stati considerati “i negri” d’Europa. Nel Sud Italia imperava il sarcastico detto “O migranti o briganti“; come possiamo, oggi, puntare l’indice verso coloro che tentano un approdo sulle nostre coste in cerca di un futuro migliore? Per tale ragione non stonano affatto quelle immagine di oggi, di un presente tragico fatto di persone che affidano ad esili barche e agli umori del mare la loro vita, nel tentativo estremo di migliorarne le condizioni.
L’importanza di ricordare chi siamo e da dove veniamo rappresenta il cuore pulsante del documentario di Alessia Bottone. Come nei migliori film neorealisti – che le immagini datate evocano scientemente – la vicenda del singolo diviene paradigmatica, di una solidarietà sociale ora intaccata dall’eccessivo benessere. Una ricchezza effimera capace di chiudere porte invece che aprirle. Cosa che invece realizza compiutamente la visione del documentario, attraverso due, in apparenza, semplici passaggi: la creazione dell’empatia a fare da anticamera alla solidarietà. Due pilastri della conoscenza, da raggiungere per comprendere meglio un mondo, quello contemporaneo, dove le divisioni non solo geografiche e sociali hanno da tempo raggiunto pericolosi livelli di sopportazione. La Napoli di mio padre funziona dunque a molteplici livelli. Da un lato l’invito a preservare una memoria troppo spesso accantonata per vivere un superficiale presente; dall’altro sottolinea l’importanza di guardarsi attorno, provando a capire sfaccettate realtà capaci di andare ben oltre il proprio orticello di riferimento.
Narrato a due voci – con l’attrice veronese Valentina Bellè a doppiare le riflessioni di Alessia, mentre la voce narrante del padre è quella autentica di Giuseppe Bottone – La Napoli di mio padre si trasforma presto in un canto polifonico in cui immagini e storie si intrecciano senza sosta, raccontando molto più del comunque ricchissimo rapporto tra un padre ed una figlia, tra un uomo migrante e la sua terra d’origine. Dove si torna sempre, se non fisicamente almeno con il cuore. Perché le nostre radici ci raccontano sempre da dove veniamo; e spesso cosa siamo diventati e quale percorso residuo ci aspetta ancora. Ed è straordinario che un documentario prevalentemente di montaggio, composto di immagini riportate a nuova esistenza e significati, ci spinga a capire come il passato possa rappresentare una ineludibile chiave di volta per migliorare presente e futuro. Da parte di chiunque abbia voglia di vedere ed ascoltare.

Daniele De Angelis

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