Schegge impazzite
La guerra a Cuba, titolo dichiaratamente metaforico, è il film indipendente che attraverso una piccola, mirata distribuzione ha tentato, nelle scorse settimane, di spostare nuovamente l’attenzione verso quelle problematiche legate all’integrazione, alla precarietà del lavoro, ai tanti conflitti sociali ancora aperti, che anche in questo periodo storico così anomalo e sconcertante possono condizionare la vita degli italiani. Intento senz’altro lodevole, obiettivo centrato a metà.
Il film di Renato Gugliano punta con decisione sulla coralità, su una incipiente stratificazione narrativa data anche dai numerosi incastri temporali, per raccontare in forma parossistica il deflagrare di una potenziale polveriera sociale, mutuata dall’autore sulla falsariga di un piccolo centro della provincia italiana: nella fattispecie la comunità di Valsamoggia, nel bolognese.
Presa confidenza con tale realtà, il regista vi ha ambientato un mosaico di storie in cui adombrare svariati contrasti, sia di natura personale che collettiva. C’è l’azienda in sciopero contro l’ennesima operazione ai danni dei lavoratori locali. C’è la famiglia della medio-alta borghesia che ancora fatica ad accettare l’orientamento sessuale di un figlio. Vi sono sospetti e diffidenze di natura più spiccatamente razziale. E vi è soprattutto una troupe giornalistica, alla quale vengono richiesti parecchio cinismo e spregiudicatezza, pur di venire incontro alle aspettative di un pubblico sempre più assuefatto a quel sensazionalismo da quattro soldi, il cui operato è destinato a produrre esiti nefasti all’interno della comunità.
Ecco, il ruolo di una stampa sempre più asservita e mediocre rappresenta, almeno ai nostri occhi, il tassello migliore di un lungometraggio dalla scrittura a volte penetrante, altre volte purtroppo scontata, schematica; un tassello che alla lunga, anche grazie alla buona vena di interpreti sopraffini come Elisabetta Cavallotti, finisce per allungare le ombre più inquietanti sul racconto. Diritto di cronaca che si trasforma in autorizzazione a ferire il tessuto sociale di una cittadina già in balia di dinamiche poco gestibili. Nello schierare sullo scacchiere appenninico altre pedine come i prevedibilissimi e quasi fumettistici militanti di estrema destra o il cittadino scontento che vi si avvicina per esasperazione, il film prende invece una piega ideologica inattuale, alquanto vetusta, specie se si pensa alle ben più serie minacce alla tenuta democratica del paese, che l’Italia ha subito dalle istituzioni stesse negli ultimi due anni. Lo spaccato sociologico a quel punto si affievolisce. E la rappresentazione fortemente iconica del disperato che spara da un campanile, si tratti o meno di omaggio cinefilo, non può non far rimpiangere l’urgenza e la forza espressiva che aveva avuto, qualche decennio prima, un’analoga situazione nel ben più destabilizzante capolavoro di Gian Vittorio Baldi, Fuoco!
Stefano Coccia