Fine pena mai
Al regista losangelino Ric Roman Waugh, al pari di un novello Caronte, piace catapultare i suoi protagonisti all’Inferno. Non quello iconico e tradizionale, bensì un altro estremamente reale e quindi anche peggiore: carcere e criminalità a formare un cocktail micidiale che porta ad un percorso totalmente opposto a quello della, presunta, redenzione. Era già accaduto, sia pur con differenti gradazioni, nei suoi lungometraggi precedenti Felon – Il colpevole (2008) e Snitch – L’infiltrato (2013); la questione si ripete, addirittura con maggior virulenza in questo La fratellanza, prison-movie dove la titolazione italiana omette – forse per carità di patria, visti i tempi – l’aggettivo “ariana” a seguire.
Jacob (ben interpretato dalla maschera impenetrabile del Nikolaj Coster-Waldau del popolarissimo serial tv Il trono di spade) conduce un’invidiabile vita alto-borghese: ricchezza, bella moglie e figlioletto da educare. Fino a che tutto si arresta nel peggiore dei modi. Dopo una serata a quattro con il suo migliore amico e la moglie, in stato di ebbrezza provoca un incidente automobilistico in cui perirà proprio il suo amico. La condanna a qualche anno per omicidio colposo prevede la reclusione in una terribile prigione di massima sicurezza – si far per dire: le gang di stampo razziale comandano anche lì, oltre che nelle strade – dove la sua esistenza cambierà per sempre.
Il principale merito di Ric Roman Waugh, anche sceneggiatore del film, è di tipo antropologico. Avendo in tutta evidenza un’ottima conoscenza di ciò di cui sta parlando – le note di regia parlano di un lavoro in incognito in qualità di secondino in un carcere simile – egli accompagna per mano lo spettatore in una discesa negli inferi umani molto verosimile. Jacob aderisce in carcere alla fratellanza del titolo inizialmente per godere di protezione rispetto alle insidie delle altre (composte da neri e ispanici); per poi scoprire di avere una “sorprendente” facilità di adattamento nello scalare posizioni all’interno del gruppo. Una sorta di predestinazione non troppo dissimile da quella raccontata da Jacques Audiard nel suo magnifico e giustamente premiatissimo Il profeta (2009), priva di qualsivoglia valenza autoriale ma diretta come un pugno nello stomaco. Alternando la narrazione tra presente (la temporanea uscita dal carcere di Jacob) e passato (il come ci è arrivato e perché è divenuto ciò che si vede ora), Ric Roman Waugh abbonda in dosi massicce di violenza provocando empatia attraverso un calvario laico che vede il ribaltamento dello stereotipo da vittima a carnefice. Il mondo della criminalità è descritto come un gorgo che risucchia: una volta entratovi, non c’è più modo di uscirne. E se si possiedono le capacità per farsi strada si diventa qualcuno in quel contesto; altrimenti non c’è alcun modo di sopravvivere.
La fratellanza resta allora un’esperienza puramente fisica sia per i personaggi che per gli spettatori, durante la quale si avverte la lacerazione della carne penetrata dalle lame e le pallottole fanno veramente male anche se si è indossato un giubbotto di protezione. Un realismo esasperato che non distingue tra buoni e cattivi, lasciando l’insieme in un’ambiguità che rispecchia alla perfezione la contemporaneità che viviamo. Il piccolo spazio di umanità che il film riserva al rapporto tra Jacob ed il figlio, nel frattempo cresciuto sin quasi alla maggiore età, si estingue in poche ma significative sequenze: la vita deve continuare per due persone ormai divenute, al di là del vincolo di sangue, del tutto estranee tra loro. Per queste ragioni – in primis il menzionato j’accuse verso l’istituzione carceraria e nonostante qualche momento di ricerca estetica forse eccessivamente compiaciuta nel voler sottolineare l’ineluttabilità della violenza – La fratellanza resta un’opera difficile da dimenticare.
Daniele De Angelis