Gli attori, L’Arte, la Vita, il Cinema
All’interno di una programmazione ricca e variegata come quella di questa trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, su tutto spicca un vero e proprio film-evento. E, quando parliamo di film-evento, non ci riferiamo soltanto alla durata (in questo caso di circa quattordici ore) del prodotto in sé, ma anche al significato intrinseco dell’opera stessa. Tale, importante lungometraggio è l’ormai noto La Flor (collocato all’interno delle sezioni Onde e Festa Mobile), per la regia dell’argentino Mariano Llinás, il quale – dopo una lavorazione durata circa dieci anni (basti pensare che persino quando, nel 2008, aveva presentato al pubblico il suo Historias Extraordinarias già aveva intrapreso la stesura del presente prodotto) – ha voluto dare vita non solo a un maestoso e sentito omaggio alla storia del cinema, ma anche a quattro sue attrici e, più in generale, alla figura stessa dell’attore, spesso posta in secondo piano rispetto alla messa in scena, ma che, in questo caso, viene seguita passo passo al fine di mostrarci in che modo un interprete possa, di volta in volta, crescere, evolversi e cambiare radicalmente dando vita a personaggi che, di fatto, sembrano non avere assolutamente nulla in comune l’uno con l’altro. Nel caso del presente La Flor, dunque, come già scritto, le interpreti intorno a cui gira l’intero lavoro sono quattro: Elisa Carricajo, Pilar Gamboa, Valeria Correa e Laura Paredes. A loro il compito di interpretare ogni volta un ruolo diverso all’interno di questo imponente carosello che è la presente opera di Llinás.
Per capire meglio come funziona l’intero lavoro, dunque, bisogna innanzitutto concentrarsi sulla struttura stessa e, a tal proposito, lo stesso titolo ci viene in aiuto: La Flor, che letteralmente significa “il fiore”, sta perfettamente ad indicare il modo in cui il regista ha concepito questa sua opera. Ciò che qui viene rappresentato sono sei storie, tutte rigorosamente senza titolo. Le prime quattro vengono volutamente lasciate incompiute; la quinta è l’unica che inizia e si conclude in modo classico, mentre la sesta prende il via “in medias res”, per poi giungere alla conclusione dopo pochi minuti. A tal punto, la divisione ci appare chiara: la quinta storia, l’unica a concludersi con un andamento lineare e piuttosto classico, sta a rappresentare ciò che chiamiamo il “capolino” di una margherita, più genericamente la parte gialla centrale; le quattro storie incompiute sono, al contrario, i petali, mentre la sesta storia sta a rappresentare il gambo del fiore. Il tutto, dunque, vuol rimandare a qualcosa di bello, di puro, a un vero e proprio piacere per gli occhi come, dal canto suo, è anche la Settima Arte. Ed è proprio lei che Llinás ha voluto celebrare in questo suo importante progetto, dando vita a qualcosa che toccasse tutti i generi cinematografici, percorrendo, in ben quattordici ore, l’intera storia del cinema. E così, dunque, che abbiamo una rivisitazione dei B-movies americani (nel primo episodio), un musical dalle venature mistery, in cui vediamo la travagliata storia d’amore tra un compositore e la sua cantante (nel secondo episodio), una spy story (nel terzo), un meno definito mix di generi, su cui spicca quello metacinematografico (nel quarto episodio), un cortometraggio girato come se fosse un film dei primi anni dall’invenzione del cinematografo, trasposizione di “Une Partie de Campagne” di Guy de Maupassant, nonché rifacimento di uno stesso cortometraggio di Jean Renoir (nel quinto episodio) e, infine, la storia, ambientata nell’Ottocento, di alcune donne che, dopo anni di prigionia da parte degli indiani, riescono a riacquistare la libertà (nel sesto e ultimo episodio).
Ora, di fronte a una struttura tanto complessa quanto delicata da gestire, è naturale che vengano fuori non poche problematiche durante la lavorazione. Prima fra tutte: un pericoloso sbilanciamento dell’intera opera che, se da un lato vede ben cinque ore dedicate esclusivamente alla spy story, dall’altro assistiamo a episodi che a stento durano mezz’ora, come nel caso dell’ultimo messo in scena. Scelta voluta? Malgrado tutte le conseguenze, probabilmente sì. Quel che, infatti, Mariano Llinás ha in mente è, soprattutto, “giocare” con la struttura del racconto, sperimentare nuovi linguaggi e nuovi modi di intendere una storia, stravolgere completamente i canoni precostituiti, a scapito di quanto Aristotele o Propp hanno teorizzato in passato. E, in seguito a una tanto lunga quanto non facile visione, si può affermare tranquillamente che l’esperimento è complessivamente riuscito. Di fianco, infatti, a momenti di stallo, addirittura di stanca, in cui la macchina da presa sembra quasi riprendere a vuoto ciò che le si para davanti, vi sono, poi, attimi di pura bellezza (vedi, ad esempio, nel quinto episodio, i due aeroplani che volteggiano in cielo disegnando eleganti scie bianche) e di forte impatto emotivo (come il momento in cui vediamo i protagonisti del secondo episodio esibirsi in un appassionante duetto o le spie del terzo episodio prepararsi a quello che si preannuncia come il sanguinoso scontro finale). È in momenti come questi, dunque, che si tende a perdonare al regista le precedenti mancanze, le quali, a loro volta, di fronte a una messa in scena tanto imponente quanto incredibilmente lunga, sono da mettere in conto prima ancora di iniziare l’intera visione. A questo punto, dunque, non ci sembrano più superflui i duraturi campi lunghi che stanno a descrivere gli ambienti, oppure i frequenti primissimi piani dei personaggi (soprattutto per quanto riguarda il secondo episodio), intenti in lunghi dialoghi atti a raccontare il proprio passato. Tutto, magicamente, ci risulta, alla fine dei giochi, ben calibrato e giustamente condito da un gradito tocco di ironia da parte dello stesso regista, in questo caso particolarmente necessario a far sì che l’intero lavoro – data la particolare struttura scelta e il volersi a tutti i costi proporre come qualcosa di innovativo – non risulti pregno di eccessiva autoreferenzialità. Tale rischio, tuttavia, è stato scongiurato sin dall’inizio, nel momento in cui fa la sua apparizione sullo schermo lo stesso Llinás, il quale, con un disegno tanto bizzarro quanto esplicativo, rende chiari fin da subito i propri intenti, fornendoci una preziosa (e più che mai gradita) chiave di lettura. Non ci abbandona mai, in realtà, questa sorta di regista-Virgilio. Oltre, infatti, a sporadiche, ulteriori “apparizioni” non prive di divertiti incoraggiamenti a proseguire la visione, la sua voce narrante – atta principalmente sia a rendere esplicite le riflessioni sul racconto che egli stesso sta portando avanti, sia a uniformare le diverse messe in scena che stanno a comporre l’intera opera – non ci abbandona mai per tutta la durata della visione, fino ad arrivare, dopo la fine del sesto episodio, al piano sequenza lungo ben quaranta minuti (e con la macchina da presa rigorosamente ribaltata) sul quale scorrono i titoli di coda e in cui vediamo l’intera troupe abbracciarsi festosa, esausta e magicamente distesa al termine della lavorazione, proprio come a suo tempo aveva fatto François Truffaut con un emozionante dolly, al termine del suo bellissimo Effetto Notte.
Marina Pavido