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150 milligrammi

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VOTO: 7

La giusta causa

Ad essere banali, certe tipologie di film a formula collaudata riescono bene solamente ai francesi, almeno in ambito europeo. Si prende una storia quanto più possibile densa di suggestioni e la si alterna con uno sguardo approfondito nella sfera privata del personaggio principale. Questo La fille de Brest (nella versione italiana 150 milligrammi) di Emmanuelle Bercot, lungometraggio presentato nella sezione ufficiale dell’undicesima Festa del Cinema di Roma, non solo rispetta appieno tali parametri, ma addirittura li impreziosisce con dettagli di genere capaci di rendere la vicenda ancora più coinvolgente della media.
Il plot vede la pneumologa di un ospedale di Brest – da cui il titolo, anche se essa, figlia di Brest lo è d’adozione, essendo il personaggio danese al pari dell’attrice che la interpreta, l’eccellente Sidse Babett Knudsen – scoprire devastanti connessioni tra l’utilizzo di un farmaco per il cuore e il sensibile peggioramento di alcuni suoi pazienti affetti da obesità diabetica. La perseveranza della dottoressa darà il via ad una sorta di inarrestabile processo che, tra numerosi alti e bassi, porterà all’accertamento della verità.
Le fille de Brest è girato come fosse un thriller esistenzialista, di quelli in cui un Davide femminile sfida il Golia rappresentato dalla seconda casa farmaceutica francese in una battaglia in apparenza priva di speranza a causa della disparità dei mezzi in campo. Scelta registica, quella di Emanuelle Bercot, che si è rivelata vincente, con il solo neo di una durata francamente eccessiva – oltre due ore – durante la quale la regista gioca troppo insistentemente sui momenti di alternanza tra euforia e depressione della protagonista. Il messaggio propugnato dal film è comunque cristallino nella sua esposizione: ci sono cause per cui vale la pena mettersi in gioco, anche a costo di vedere la propria attività professionale e la vita privata infangate dalla reazione del potente di turno. Molto interessante – ed è un sostanzioso merito della sceneggiatura, scritta dalla stessa Bercot con Séverin Bosschen, ovviamente tratta da un vero fatto di cronaca – la descrizione assolutamente realistica dell’abisso burocratico che si spalanca di fronte alla testarda dottoressa e alla equipe che la supporta, nonché allo sguardo degli spettatori. Un florilegio di istituzioni che si rimpallano la cosiddetta patata bollente, tra esperti in tutta evidenza prezzolati dalla multinazionale in questione e avvocati in cerca di motivi per screditare l’idealistica iniziativa della donna. E nei momenti in cui il ritmo cala c’è sempre la classe di Sidse Babett Knudsen a tenere nella corretta rotta di navigazione il film; l’attrice danese sfoggia l’intero repertorio di comportamenti ed espressioni facciali riuscendo a risultare sempre credibile e mai istrionica. Dal canto suo la regia della Bercot la supporta abilmente, limitando al minimo indispensabile quelle strizzatine d’occhio al pubblico che invece erano ben presenti nel suo precedente lavoro A testa alta (2015). Del resto il narcisismo cinematografico deve essere connaturato nel dna di chi viene dalla recitazione ed essendo donna di innegabile fascino come è la Bercot “avverte” l’esigenza di dover piacere ad ogni costo; caratteristica che la cineasta inietta anche nel personaggio principale, aspetto del quale viene palesemente accusata dal collega/amico interpretato da Benoît Magimel in un frangente del film.
Apprezzabile e riuscita, dunque, la commistione tra realtà e finzione, per un racconto cinematografico che – oltre ad avere una costruzione geometrica, sia dal punto di vista formale che narrativo, in grado di affascinare – possiede il coraggio di elevare un sostantivo di discreta pesantezza rispondente al nome di Etica (con la maiuscola), ad autentica ragione di vita. La fille di Brest non avrà la straordinaria forza morale di un Insider (1999) di Michael Mann – giusto per citare un’opera dai contenuti affini, sia pur geograficamente e non solo distante – ma resta un lungometraggio che riesce a parare esattamente dove voleva. Cioè nelle coscienze di coloro che sceglieranno di guardarlo.

Daniele De Angelis

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