Scandalo al sole
Chi è Romina Cecconi? Cosa ha e continua a rappresentare? Per chi non lo sapesse è una delle prime transessuali italiane note al pubblico a operarsi. Ed è proprio lei a rispondere a queste domande nel documentario La donna pipistrello, presentato in concorso nella sezione dedicata al cinema del reale della 30esima edizione del Festival Mix Milano. Sono le sue stesse parole – e solo quelle – a traghettare lo spettatore nella sua vita di ieri e di oggi, attraverso un flusso mnemonico e orale che procede a ruota libera come una confessione a cuore aperto e senza filtri. A raccoglierla, dall’altra parte della macchina da presa, troviamo Matteo Tortora e Francesco Belais che, come con un puzzle, rimettono insieme i tasselli sino a ottenere un breve ma significativo ritratto.
Per la precisione, quello “dipinto” dalla coppia di registi, è un auto-ritratto che fa della presenza e del racconto in prima persona della stessa Cecconi il baricentro dell’opera. Non si tratta, infatti, della classica biografia, piuttosto di un diario scritto in presa diretta e restituito sullo schermo attraverso due sessioni di interviste. Al suo interno confluiscono presente e passato, pubblico e privato, con la protagonista che ripercorre la propria esistenza (dall’adolescenza ai primi travestimenti fino all’operazione per il cambio del sesso e al confino a Volturino, in provincia di Foggia) in parallelo con mezzo secolo di storia della Società italiana, dagli anni cinquanta agli anni novanta. Da qui emerge l’aspetto più interessante de La donna pipistrello, vale a dire la conflittualità e la diversità di vedute rispetto alla persona e al personaggio, un personaggio scomodo in una città, Firenze, che l’ha amata mentre le istituzioni l’hanno sempre temuta.
Il tutto assemblato e accompagnato da materiali di repertorio video (riprese di uno spettacolo teatrale e brani estrapolati dal documentario di Mauro Bolognini del 1975 dal titolo C’era una volta un ragazzo) e fotografici. Il risultato è un’architettura schematica, scarna e lineare, con l’intervista in multi-camera che si mescola con i pochi materiali d’epoca a disposizione. Questa estrema e rigorosa semplicità del prodotto, per quanto concerne la confezione, è allo stesso tempo un pregio e un punto debole: da una parte ci si trova al cospetto di un assolo che intelligentemente mantiene sempre il fuoco sulla persona e sulla sua storia, senza futili digressioni utili solo a gonfiare il minutaggio della timeline; dall’altra l’assenza di particolari soluzioni stilistiche, visive e di montaggio, ridimensionano drasticamente il potenziale dell’opera, quanto basta per non riuscire mai a rubare l’occhio dello spettatore di turno.
Francesco Del Grosso