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La danza della realtà

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VOTO: 9

Autobiografia visionaria

«Per te, io non esisto ancora. Per me, tu non esisti più. Alla fine del tempo, quando la materia prende il cammino del ritorno al punto di origine, tu e io saremo stati solo ricordi, mai realtà. Qualcosa ci sta sognando. Abbraccia l’illusione! Vivi!»
(Jodorowsky anziano a Jodorowsky bambino)

Grazie a Mescalito, distribuzione già meritevole a suo tempo d’aver “scommesso” sulle ultime opere del grande Alejandro Jodorowsky, questi suoi film vengono riproposti proprio in queste settimane sul grande schermo, presso il cinema Barberini di Roma. Martedì 28 marzo abbiamo potuto così ammirare il fluviale La danza della realtà, datato 2013. Mentre, procedendo rigorosamente in ordine cronologico, il 4 aprile toccherà a Poesia senza fine (2018) e il 18 dello stesso mese a Psicomagia (2019), la più recente fatica dell’ultranovantenne regista sudamericano. Un’occasione da non perdere, per confrontarsi ancora una volta con tale immaginifica filmografia, in cui il personale sconfina nell’universale, la carnalità si fonde con la metafisica; così da ripensare in blocco un percorso autoriale che, almeno in Italia e a riprova delle frequenti “distrazoni” di un pubblico e – soprattutto – di una critica ormai assuefatti da noi alle tante, troppe banalità “made in Netflix” o in altre piattaforme à la page, pare aver destato negli ultimi anni meno interesse di quanto ne seppero suscitare, in passato, autentiche pietre miliari come El Topo (1970), La montagna sacra (1973) e Santa Sangre (1989).

Ne La danza de la realidad ovvero La danza della realtà l’autore rivede se stesso bambino, misura la distanza temporale intercorsa da allora, con gli inevitabili mutamenti fisici e psichici. Per abbracciare così la totalità dell’esistenza. “Once Upon a Time in Tocopilla”, potremmo anche dire: per tramite del film Jodorowsky trasfigura la propria infanzia, vissuta in quella cittadina costiera del Cile, parafrasando al contempo i trascorsi e le note caratteriali dei genitori, Jaime Jodorowsky Groismann e la “canterina” Sara Felicidad Prullansky Trumper, entrambi di origini ebraico-ucraine.
Di grosso aiuto, per contestualizzare meglio le coordinate esistenziali, private e finanche estetiche di una così labirintica costruzione narrativa, è stata l’appassionata introduzione del film regalataci in sala dalla film-maker Sara Pozzoli, la quale ha posto in evidenza tra l’altro il contemporaneo coinvolgimento sul set dei tre figli di Jodorowsky: Brontis, il compianto Cristóbal (nato Axel) e Adan, con quest’ultimo autore tra l’altro delle splendide musiche. Notevoli gli strascichi emotivi di tale scelta. Principalmente per quanto riguarda il ruolo del primogenito, Brontis, chiamato qui a rispecchiare in un ardito gioco di specchi il padre del regista, Jaime, col quale Alejandro stesso aveva avuto da infante un rapporto a dir poco complesso.

Nel tritacarne dei ricordi e della Storia finiscono così machismo, povertà, simboli religiosi, spiritualità, militanza politica, feroci dittature sudamericane, slanci sentimentali e tutto ciò che un Maestro come Alejandro Jodorowsky, senza mai risultare artificioso o stucchevole, ha saputo trasporre in immagini visionarie, poetiche, magiche. Rendendo così visibile, palpabile, un’altalena di emozioni, in cui la sofferenza e il piacere, la crudeltà e la compassione, vengono a comporre con indicibile grazia un mosaico fatto di infinite tessere: il Mistero dell’esistenza umana, al quale arrendersi in un abbraccio che trascende il Tempo.

Stefano Coccia

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