Teste fluttuanti
Il periodo Sengoku della storia giapponese, che va dal 1467 al 1603, ha rappresentato un’epoca di guerre feudali sanguinarie, che si sono concluse con la riunificazione del paese sotto lo shogunato Tokugawa, e a la successiva era di pace, l’epoca Edo. Il cinema vi ha ambientato parecchi film, da Kagemusha e Ran di Akira Kurosawa, a un altro classico come The River Fuefuki di Keisuke Kinoshita. Di recente si è visto, al Far East Film Festival un ulteriore, ottimo, film con quel soggetto, ovvero The Legend & Butterfly di Keishi Ōtomo. Ora arriva anche Takeshi Kitano a confezionare un film epico, con grandiose ricostruzioni di battaglie dell’epoca degli stati belligeranti. Si tratta di Kubi, a Cannes nella sezione Premiere, che segna l’unico jidaigeki, ovvero i film di ambientazione storica, insieme a Zatoichi, per il regista. Si tratta di un’opera da lui lungamente accarezzata, da circa trent’anni, basata su un suo romanzo storico che offre un’interpretazione al mistero mai risolto dell’assassinio del signore feudale Oda Nobunaga.
In 130 minuti Kitano dispiega una narrazione estremante contorta, che riflette gli intrighi di quel delicato periodo storico, mette in scena scene epiche magniloquenti di battaglia, confrontandosi così con la cinematografia di cui sopra, fa sfilare i personaggi storici, i signori feudali quanto figure importanti come il maestro della cerimonia del tè Sen no Rikyū, i guerrieri, tanto i samurai quanto i ninja. E soprattutto profonde un’estetica da grand guignol, con sovrabbondanza di decapitazioni come di seppuku, i suicidi rituali dei samurai. L’estetica macabra è molto ben sviluppata, e trova la sua massima espressione nell’immagine del cadavere con i granchi che banchettano sulla sua testa. Kubi in definitiva traspone tutte le dinamiche del cinema di yakuza del regista in chiave storica. Ritorna tutto quel cinismo estetico e quella spietatezza della messa in scena che portano al grottesco, quel senso estremo di labilità della vita umana. Uccisioni e suicidi istantanei, buttati lì, senza alcuna enfasi narrativa. Le scene di seppuku sono improvvise come lo sparo alla tempia del finale di Sonatine.
Kubi diventa però un grosso contenitore dove buttar dentro di tutto. Per esempio, una scena di combattimento surreale, tra le tante iperrealistiche, con gli spadaccini che quasi lievitano nell’aria, come nel genere cinese dei wuxia. Forse memore della sua partecipazione come attore in Tabù/Gohatto, Kitano inserisce anche una situazione omoerotica, cosa peraltro molto diffusa tra i samurai come era detto nel film di Oshima. Anche in questo caso però senza alcun sviluppo. Beat Takeshi insegue il film kolossal storico-epico come non aveva mai fatto e vuole misurarsi con Kurosawa, cosa peraltro esplicitata nel materiale stampa del film che allude a buoni auspici del maestro che, nel 1993 ancora vivente, aveva dato il beneplacito al progetto che, come si diceva, era già accarezzato da Kitano. Manca però in tutto questo tripudio di eserciti di samurai in livrea e di teste che rotolano, un’idea forte che lo giustifichi. Si sente purtroppo l’abbandono del regista della casa di produzione da lui stesso fondata, l’Office Kitano, con la perdita dei suoi storici collaboratori.
Giampiero Raganelli