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Koko-di Koko-da

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VOTO: 7.5

Brutti sogni

L’elaborazione del lutto è uno dei temi più delicati, scivolosi e complicati con i quali un regista (e non solo) può avere a che fare. Non è un caso, infatti, che la stragrande maggioranza dei tentativi siano andati a vuoto, schiacciati dall’enorme peso specifico di una materia davvero difficile da gestire. Viene da sé che ci siano pochissimi film che hanno saputo affrontarlo con la giusta misura, scegliendo una chiave o un tono particolare per andare a segno. Tra questi c’è Koko-di Koko-da, presentato in concorso alla 24esima edizione del Milano Film Festival, nel quale Johannes Nyholm ha dato forma e sostanza a una sorprendente favola nera incentrata sul dolore di una coppia che ha perso l’unica figlia in un tragico incidente. Mentre si trovano in campeggio, a stretto contatto con la natura, nel tentativo di ritrovarsi e così salvare il matrimonio, i due coniugi finiscono in balia di un perfido giostraio e del suo stralunato seguito.
La particolarità dell’opera seconda del cineasta svedese, già autore del pluri-premiato The Giant, sta nel modus operandi messo in atto per raccontare la tragica vicenda, che consiste in un visionario loop spazio-temporale crudelmente terapeutico che costringe i due protagonisti a rivivere lo stesso incubo ad occhi aperti che muta di volta in volta. Qualcuno un giorno ha detto che per superare un trauma bisogna riviverlo ed è quanto, loro malgrado, saranno costretti a fare moglie e marito in una notte che ricorderanno per il resto della vita. Siamo d’accordo sul fatto che quella del loop non sia una soluzione originale dal punto di vista dell’architettura narrativa e pellicole come Source Code o Ricomincio da capo ne sono la dimostrazione. In effetti vi sono questi come altri precedenti, ma in Koko-di Koko-da viene messa al servizio di un intreccio tra reale e dimensione onirica davvero efficace in termini di resa e costruzione della tensione, azzerando la soglia al punto tale da rendere impercettibile il passaggio. L’una si riversa nell’altra con l’incubo che di volta in volta diventa sempre più tangibile, cambiando connotati ma mantenendo la stessa sadica evoluzione di un incubo grottesco e surreale che sembra destinato a non avere mai fine. Il tutto accompagnato dalle note e dai versi della celeberrima filastrocca francese che dà il titolo alla pellicola e che fischiettata si trasforma in un terribile presagio di morte.
La forza del film sta dunque nella capacità di cambiare le carte in tavola e di riflesso anche i connotati del genere di appartenenza, prendendo derive del tutto inaspettate e imprevedibili. Il dramma famigliare, pur rimanendo saldamente impigliato tra le pieghe della narrazione, lascia spazio all’horror metafisico e psicologico con più di una strizzatina d’occhio, con tutte le dedite distanze del caso, al cinema di David Lynch. Fonte quest’ultima inesauribile dalla quale attingere quando si vuole andare a mettere le mani in certe dinamiche. Nyholm lo fa e per fortuna sua (e anche nostra) senza imitare l’operato inimitabile del celebre collega. Ci mette del suo tanto in fase di scrittura quanto in quella di messa in quadro, con un contributo di qualità che viene dalle performance attoriali di Leif Edlund e Ylva Gallon, ma soprattutto di Peter Belli nei panni dell’inquietante giostraio.

Francesco Del Grosso

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