L’ultimo grande divo
Fugaci pensieri di una notte invernale. Forse ricondotti alla logica dalle luci dell’alba. O forse no. Chi vive tanto a lungo è come se fosse immortale. Le tante vite di mister Kirk Douglas (nato Issur Danielovitch Demsky), scomparso alle veneranda età di anni numero cento e tre. Un attore, certo. Di razza. Ultimo esponente di una generazione divistica che non esiste più. Un talento purissimo capace di trascendere in icona. Non da tutti. Le fossette del mento, il naso aquilino, il fisico non aitante ma comunque imponente. Ma sopra di tutto il carisma, quello che non ci allena a possedere con la pratica: o lo si ha oppure non c’è. Ma Kirk Douglas è stato anche molto altro. Produttore, per restare in ambito cinematografico. Di quelli capaci di imporre la propria idea contro tutto e tutti. Ne sa qualcosa un grande regista americano come Anthony Mann, esautorato dal set di Spartacus (1960) dal suo protagonista e finanziatore in favore di un emergente di nome Stanley Kubrick, da lui già apprezzato in una precedente occasione professionale. O anche la sua personale crociata a difesa dello sceneggiatore Dalton Trumbo, finito nel mirino dalla fetida caccia alle streghe messa in atto durante il triste periodo maccartista. Tralasciamo le cronache rosa che lo vollero grande ed instancabile seduttore. Sposato due volte – la prima con Diana Dill, dal 1943 al 1951 – è rimasto più o meno fedele alla seconda donna della sua vita, quella Anna Buydens la quale le è rimasta accanto sino alla fine. Un pater familias che amava riunire la stessa in ogni occasione possibile. Michael il più celebre, nato nel 1944 dal primo matrimonio. Lo rese orgoglioso. Mentre il grande dolore porta il nome di Eric, morto nel 2004 per eccesso di stupefacenti. La sofferenza di un padre costretto a sopravvivere ad un proprio figlio.
Il resto è leggenda. Una filmografia sterminata baciata da un talento che gli ha permesso con assoluta intercambiabilità di passare da ruoli di eroe positivo a negativo. La classe. Alzi la mano chi non ricorda l’umanissimo ufficiale cui dà vita nel celebre Orizzonti di gloria (1957), sua prima collaborazione con Stanley Kubrick. Impuntandosi, tra l’altro, affinché fosse mantenuto il finale originale, quello drammatico e insensato, che ancora oggi commuove le platee di tutto il mondo. Ne L’asso nella manica (1951), pregnante escursione nel dramma di sua maestà Billy Wilder, disegna la figura di un giornalista cinico e arrivista, così in anticipo sui tempi da rimanere memorabile. Poi ha mirabilmente incarnato la geniale follia di Vincent Van Gogh in Brama di vivere (1956) di Vincente Minnelli, parte border-line che ne certifica l’immensa statura recitativa. Ma non si possono citare tutti i ruoli che ne hanno attestato la grandezza. Un uomo di cinema totale che ha frequentato, come giusto che fosse, tutti i generi possibili ed immaginabili, dal western al film bellico, dal noir al thriller, dal melodramma alla fantascienza per finire con la commedia. Non ultime apparizioni nel nostro cinema bis, quando quest’ultimo era nel momento di massimo espansione. E la sua presenza in Holocaust 2000 (1977) di Alberto De Martino è lì a ricordarcelo.
Kirk Douglas è stato l’ultimo messaggero proveniente da un universo ormai scomparso, almeno da un punto di vista fisico. L’immagine di un’industria che rendeva i sogni materiale reale, visibile e alla portata di tutti. Con una discriminante fondamentale: oltre alla ovvia e comprensibile spinta imprenditoriale di guadagnare soldi, c’era passione, amore e rispetto per il proprio lavoro. A prescindere dalla mansione svolta. Nel presente c’è la perfezione tecnica, sussiste una grande professionalità. A mancare, in linea generale, è altro. Qualcuno dalla tempra di Kirk Douglas, ad esempio. Da oggi lo ricorderemo, ma senza rimpiangerlo. Quello lo abbiamo già fatto da qualche tempo.
Daniele De Angelis