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Kiki

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VOTO: 7.5

Not about us without us

Dopo aver inaugurato l’ultima edizione del Frameline di San Francisco e aver conquistato il Teddy 2016 nella sezione documentari alla scorsa Berlinale, oltre alla nomination al Grand Jury Prize al Sundance 2016, Kiki approda per la seconda volta sugli schermi nostrani dopo la partecipazione al Premio Queer del 31esima Torino Gay & Lesbian Film Festival. L’occasione è stata la proiezione nel concorso dedicato al “cinema del reale” del 30esimo Festival Mix Milano, dove la preziosa e appassionante opera firmata da Sara Jordenö ha raccolto applausi convinti da parte della platea meneghina presente nella splendida cornice della Sala Grande del Piccolo Teatro.
In primis va sottolineata l’importanza di un’opera che ha il merito di avere riacceso i riflettori su una realtà tanto vasta, quanto colpevolmente sconosciuta nel Vecchio Continente. Stiamo parlando del voguing, movimento di danza e performance nato dalla comunità LGBTQ afroamericana e latinoamericana sul finire degli anni Ottanta nei locali underground di New York. Nel decennio successivo fu scoperto e portato alla ribalta niente di meno che da Madonna e portato per la prima volta sullo schermo da Jennie Livingston nel pluri-premiato Paris is Burning. Dunque, di decenni ne sono trascorsi abbastanza e nonostante simili veicoli promozionali, lo spettatore europeo e non solo continua a brancolare nel buio quando si fa cenno al suddetto movimento. Viene da sé l’urgenza e la necessità, doverose a nostro avviso, di rigettare una luce ancora più forte e penetrante sull’argomento. Kiki è questa luce, ma anche la dimostrazione che una danza può rappresentare molto più di una semplice performance.
Al centro della pellicola della Jordenö c’è, infatti, il progetto di indagarne l’evoluzione sino al giorno d’oggi, sia come compendio utile alla sua scoperta o alla riscoperta, sia come giro di boa necessario a fare il punto sulla soluzione. Il documentario diretto dalla regista svedese percorre entrambe le direzioni, ma per farlo è costretto a mettere davvero tanta carne sulla brace, soprattutto di carattere informativo e descrittivo. Contenuti, quest’ultimi, che ci rendiamo conto essere fondamentali per la fruizione da parte di quella fetta di pubblico che dell’argomento in questione sa poco e nulla. Ciò determina un gonfiamento eccessivo della timeline, ma quella della giustezza oppure no della durata (94 minuti per la precisione) è un dato assolutamente soggettivo, che per noi rappresenta un neo, mentre per altri può essere più che legittimo.
Per quanto ci riguarda, il meglio di Kiki risiede nelle emozioni che provoca nello spettatore e nel punto di vista intimo e privato che assume una volta esplicato il compito puramente informativo. La macchina da presa della Jordenö passa allora ad esplorare la quotidianità di un gruppo di giovani LGBTQ, che vivono la scena del voguing come soluzione ai problemi dell’esclusione sociale, come occasione di riscatto. Nel racconto della preparazione di questo insolito ballo delle debuttanti, la regista ci svela come identità di genere e classe sociale si superano, per convivere in una dimensione sospesa tra sogno e realtà, quando il potere è dato all’immaginazione. Perché prima di ogni cosa, quella raccontata in Kiki, con immagini di grande impatto visivo, coreografie  e musiche ritmicamente coinvolgenti, è una storia di adolescenza. di trasformazione, di cambiamento, di resilienza.

Francesco Del Grosso

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