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John McEnroe – L’impero della perfezione

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VOTO: 8

Osservato speciale

Prima di vedere un’opera come John McEnroe: In The Realm Of Perfection (nella versione italiana John McEnroe – L’impero della perfezione) bisogna dimenticare assolutamente tutto quanto prodotto e visto sino a questo momento sul piccolo e grande schermo in materia di audiovisivo su John McEnroe e su uno sport, il tennis, che l’atleta statunitense ha contribuito ad elevare in maniera esponenziale con le sue indimenticabili gesta sul rettangolo di gioco. Questo perché la pellicola di Julien Faraut, presentata in Concorso alla 54esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro dopo l’anteprima alla Berlinale 2018 nella sezione “Forum”, non ha nulla a che fare con i documentari biografici e sportivi, ma anche con i film di finzione che hanno raccontato e mostrato lo sport in questione e i suoi celebri esponenti di oggi e soprattutto di ieri, a cominciare proprio dal pluridecorato tennista americano. Di conseguenza, senza andare troppo in là nel tempo, vi suggeriamo di mettere da parte operazioni che, seppur meritevoli come Borg McEnroe o Love Means Zero, non vanno nella medesima direzione.
Dunque, la cosa da fare per approcciarsi nel migliore dei modi a un’opera come questa è proprio quella di resettare la mente in modo da immergersi completamente in quella che è a tutti gli effetti un’esperienza filmica, sensoriale e istruttiva su un grandissimo atleta e sulla pratica tennistica portata ai massimi livelli, a una soglia della perfezione con il 96,7% di vittorie conquistate in una stagione. Solo così potrete apprezzare cosa il cineasta francese ha provato a fare, a nostro avviso riuscendoci, con un film che è in primis un saggio teorico sulla cinetica e poi uno sguardo antropologico su un essere umano, al quale si va ad aggiungere un ritratto romantico e se vuoi nostalgico del Roland Garros dei primi anni Ottanta. Il tutto attraverso la figura dell’allora numero uno del mondo, che all’epoca fu come altri suoi illustri colleghi transitati sulla terra rossa del prestigioso torneo del Grande Slam, il baricentro e il solo (s)oggetto di osservazione delle cineprese 16 mm guidate più di trent’anni fa da Gil de Kermadec per il documentario d’istruzione Roland Garros avec John McEnroe. Decenni dopo Faraut ha attinto a piene mani dalle tante ore di rush, che ad oggi erano ancora inedite e con un accurato e pregevolissimo lavoro di montaggio le ha plasmate dando ad esse una nuova vita, una nuova forma e una nuova identità cinematografica.
Quello del regista transalpino è un film didattico nell’accezione nobile del termine, che rivela i “problemi di convivenza” tra, da una parte, un campione perfezionista e, dall’altra, arbitri perfettibili, un pubblico desideroso di spettacolo e una troupe che ha deciso di catturare ogni mossa dell’irascibile tennista americano. Il risultato è una “radiografia” che mette sotto l’occhio impietoso di un apparato filmico plurimo, che mostra da diverse angolazioni e punti di vista, come fosse un microscopio con il quale osservare da vicino le particelle di un’esistenza, anche i più impercettibili movimenti muscolari e le intenzioni di un atleta prima ancora che si materializzino. Una radiografia impietosa che riesce a mettere a nudo anche l’uomo, il suo essere e le sue contraddizioni, ma anche la maschera del personaggio che per anni ha voluto e dovuto indossare per difendersi dall’esterno e persino da se stesso, da quella ossessione patologica nei confronti della vittoria e della ricerca spasmodica e disperata di una perfezione che non raggiungerà mai, perché la perfezione non esiste. E questo approccio fa di John McEnroe: In The Realm Of Perfection anche un importante e significativo trattato di psicologia non solo sportiva.
Sta dunque nel concept e nel modo in cui questo ha preso forma e sostanza sullo schermo l’anello di forza alla base dell’ingranaggio, ciò che consente all’operazione di calamitare a sé l’attenzione di una platea che, altrimenti, non avrebbe motivi a sufficienza per andare a vedere l’ennesimo film o documentario su McEnroe, su un tennista e su una pratica sportiva. Di fatto, è l’approccio tecnico e narrativo alla materia, in parte ereditato dalla matrice originale (del quale oltre ai rush, ripropone anche dei brani), e che molti anni dopo rivedremo anche in altri progetti analoghi come Kill the Referee di Yves Hinant, Delphine Lehericey e Eric Cardot o Zidane, un portrait du XXIe siècle di Philippe Parreno e Douglas Gordon, a fare la vera differenza, a permettere a John McEnroe: In The Realm Of Perfection di essere altro dal filone al quale ha deciso di non appartenere, ossia quello classico del cinema sportivo e biografico. Il regista francese lo rivoluziona partendo dalla radice per trasformarlo in qualcosa di profondamente diverso, arricchito dalla voce narrante di Mathieu Amalric. Il filone, in tal senso, ha rappresentato solo il punto di partenza di un’operazione che a conti fatti risulta coinvolgente, persino divertente (vedi il capitolo che mostra i siparietti del protagonista con gli arbitri di turno e con gli spettatori seduti sugli spalti nel corso del torneo) e adatto non solo agli appassionati e agli addetti ai lavori, perché capace di mostrare attraverso un sapiente (ri)utilizzo dei materiali d’archivio a disposizione (da rivivere tutta d’un fiato la finale del Roland Garros del 1984, attraverso l’efficacissimo montaggio degli highlights dei cinque serratissimi set, durati oltre quattro ore, tra McEnroe e Lendl) il controcampo che si viene a creare tra il personaggio pubblico e quello privato.
Un film da non farsi assolutamente sfuggire, anche da chi non ama i documentari di montaggio. Solo dopo averlo visto, ne capirete la straordinaria forza comunicativa e l’importanza dei suoi contenuti. E per chi se lo fosse perso a Pesaro 54, l’opportunità di recuperare l’opera di Julien Faraut ci viene servita sul piatto da Wanted Cinema che ne ha acquisito i diritti per la distribuzione in Italia nei prossimi mesi.

Francesco Del Grosso

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