My name is Joe
Sempre fedele alla linea, il cinema orgogliosamente “indie” di David Gordon Green non deroga nemmeno in questo Joe, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia edizione 2013 e in uscita nelle sale solamente un anno più tardi.
Curioso esempio di cineasta artisticamente “sdoppiato”, Green alterna da qualche anno lavori più personali a escursioni nel mondo di Hollywood, caratterizzate da pellicole alimentari comunque in possesso di una qualche vena di originalità puramente demenziale come Strafumati (2008) e Lo spaventapassere (2011). Ovviamente Joe appartiene alla prima categoria, nonostante la presenza di Nicholas Cage nel ruolo del personaggio del titolo e la produzione targata Lionsgate attestino una collocazione, in riferimento al budget a disposizione, a metà strada rispetto agli esordi “duri e puri” di George Washington (2000) e All the Real Girls (2003). Con queste ultime pellicole Joe ha in comune lo sguardo antropologico rivolto verso un’America provinciale e marginale, avente per protagonista personaggi comuni e problematici di quelli che sarebbero potuti uscire dalla penna del grande Raymond Carver come (non) protagonisti di qualche suo racconto. Una realtà a dir poco squallida e la ricerca disperata di una vaga possibilità di riscatto: queste le coordinate in cui si muove Joe/Nicholas Cage, piccolo imprenditore che di mestiere è a capo di una squadra che si occupa di disboscamento su commissione. Le cose cambiano quando all’orizzonte compare l’adolescente Gary (l’ormai lanciatissimo Tye Sheridan ammirato in The Tree of Life di Terrence Malick e soprattutto nel quasi coevo Mud di Jeff Nichols, pellicola molto affine a questo Joe), proveniente da famiglia a dir poco disastrata. Per Joe questa diviene l’opportunità per colmare vuoti affettivi ed esistenziali in genere, prendendo il ragazzo sotto la propria ala protettiva.
Discretamente interessante quando fa emergere con precisione entomologica la natura contrastata dei suoi personaggi principali, Joe finisce con il perdere purtroppo colpi quando si tratta di far evolvere un plot troppo prevedibilmente indirizzato verso una tragedia annunciata. La sceneggiatura di Gary Hawkins accumula personaggi secondari tanto negativi quanto assai poco sbozzati, con tanto di rispettive nefandezze assortite, tradendo in un certo senso proprio quel minimalismo “carveriano” che vede l’essenza di un qualsiasi discorso annidarsi tra fatti e situazioni in apparenza banali e insignificanti. Peccato dunque per quella sensazione di eccessiva programmaticità costruita a tavolino, a guastare almeno parzialmente l’esito finale di un’opera che comunque riesce a farsi apprezzare per il modo in cui riesce a coniugare racconto di formazione – riguardo al giovane Gary – e redenzione esistenziale nella figura di Joe, sufficientemente ben descritta anche dall’attenta regia di Green per finire nel dimenticatoio. I suoi monologhi intimi, il modo sinceramente onesto al limite dell’ingenuo attraverso cui guarda – volendo cambiarne le sorti, alla stregua di un sogno impossibile – la fauna umana derelitta che si muove attorno a lui e di cui si sente parte riescono comunque a creare quell’empatia necessaria allo spettatore per un coinvolgimento emotivo alla vicenda narrata.
Come nel bellissimo Mud, gli adolescenti guardano il mondo degli adulti con iniziale e ben motivato scetticismo, pronti però a ricredersi quando un’azione o anche un singolo gesto può diventare esempio da seguire. In questa chiave anche Joe – inteso sia come film che personaggio – riesce nell’impresa di regalare un piccolo ma prezioso contributo pedagogico a quella che in fondo è una delle fondamenta primarie dell’umanità: l’importanza del tramandare alle generazioni successive il proprio patrimonio di esperienza. A mo’ di autentico insegnamento alla vita. E ben venga, ovviamente, il fatto che il cinema si faccia veicolo di ciò, anche se purtroppo in modo sempre più sporadico.
Daniele De Angelis