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Je m’appelle humain

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VOTO: 7.5

Versi dal vissuto

Altro lungometraggio in anteprima italiana, il documentario Je m’appelle humain occupa senz’altro un posto di riguardo tra i lavori presentati nel corso della diciannovesima edizione delle Giornate del Cinema Quebecchese in Italia. Soprattutto perché riassume alla perfezione il fil rouge che unisce molte delle opere offerte dal ricco palinsesto della manifestazione: l’importanza della memoria.
Joséphine Bacon, protagonista del documentario diretto dall’attivista locale Kim O’Bomsawin, è una donna anziana di origine Innu, tribù autoctona del Labrador, penisola collocata geograficamente nell’estremo oriente del Quebec. Una delle ultime custodi di una cultura straordinariamente profonda (Innu significa l’Essere Umano. Da cui scaturisce l’evocativo titolo del lungometraggio) nonché a propria volta artista di rilievo. Poetessa, si potrebbe definire. Se le sue stesse parole, pronunciate nel prologo dell’opera, non smentissero completamente tale appellativo. Il termine poesia, infatti, nella lingua dei nativi da cui proviene non è contemplato. Semplicemente non esiste. La poesia altro non è che una sovrastruttura letteraria, qualcosa di artefatto. Vivere a contatto strettissimo con la natura selvaggia, in una sorta di osmosi reciproca, rappresenta già un preludio ad una possibile forma d’Arte interiore. Da cullare e coltivare in maniera soggettiva. Quasi una rivoluzione “copernicana”, in grado di azzerare il concetto di arte in dote a pochi eletti e invece distribuire la possibilità di partorire bellezza nei confronti di ogni individuo di una comunità oltremodo unita.
Dopo tale preambolo, già di per se stesso un gigantesco, simbolico, passo concettuale, inizia il viaggio di Joséphine Bacon. Fisico e metaforico. Ripreso, momento dopo momento, dalla macchina da presa della regista. In un documentario non particolarmente innovativo in una forma che alterna alle pregnanti parole della protagonista, spettacolari scorci naturali e immagini di repertorio allorquando si cercano tracce di una memoria passata; eppure un lavoro efficace proprio perché, nella sua semplicità, riesce a veicolare con chiarezza il messaggio ultimo dell’opera. Quello di custodire le proprie radici culturali alla stregua di un tesoro da preservare con la massima accuratezza.
Come tante altre persone indigene anche Joséphine Bacon ha viaggiato, vissuto altre realtà sociali, abitato in metropoli canadesi come Montreal. Tuttavia ha sempre mantenuto, anche grazie alla propria sensibilità interiore, un rapporto molto stretto con la cultura d’origine. Rapporto che si sublima nel finale di un lungometraggio capace di unire, in un abbraccio indivisibile, vena artistica e ricordo umano, facendo sgorgare in chi guarda sincera commozione. Rappresentando il momento culminante di un percorso che comunque vale assolutamente la pena seguire fino in fondo, anche nelle pause contemplative che ne intervallano momenti di maggiore profondità.
Accompagnati per mano da una donna ormai anziana, segnata da evidenti difficoltà di deambulazione e tuttavia capace di dimostrare una forza interiore davvero rara. Una personalità di livello assoluto alla quale la regista e sceneggiatrice Kim O’Bomsawin fa benissimo ad affidare le complete redini di un documentario la cui destinazione ultima regala momenti di cinema realmente densi di pura emozione.

Daniele De Angelis

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