Il “quasi” divo
Aveva tutto, James Caan. Le carte perfettamente in regola per divenire un’icona hollywoodiana. Una mascolinità prorompente. Un istrionismo alla Jack Nicholson seppur dispensato con moderazione. Un’ironia sottesa. Soprattutto una sopraffina capacità di adattamento a differenti registri interpretativi, come ben testimonia la propria filmografia. Una lista lunghissima che non comprende, per l’attore appena scomparso ad ottantadue anni d’età, molti altri film che probabilmente avrebbero provveduto a rafforzare la sua aura divistica. Qualche titolo? Apocalypse Now, dell’amico Coppola. Oppure Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg. O ancora un ruolo per cui sembrava portato dalla nascita, quello del protagonista ne Il braccio violento della legge di William Friedkin. Aggiungendo una serie di vicissitudini esistenziali – in primis la prematura dipartita di un familiare a lui molto caro – che hanno condotto James Edmund Caan (questo il suo nome all’anagrafe) sulle accidentate strade della tossicodipendenza si ottiene forse qualche motivazione in più per una carriera densa di qualche rimpianto.
Eppure, proprio leggendo in controluce tale preambolo, pochissimi attori di razza come James Caan hanno saputo incarnare, e di conseguenza mettere in scena, le debolezze del cosiddetto uomo forte. Quasi tutti i suoi ruoli più celebri sono incentrati su tale, solo apparente, contraddizione: la decostruzione della figura, tipicamente maschile, del classico eroe cinematografico con il quale identificarsi, sognando di essere lui. Altri tempi. Caan, grazie anche all’opera dei registi con cui ha lavorato, ha sempre remato controcorrente, umanizzando i propri personaggi e accompagnando per mano i lungometraggi che lo hanno visto impegnato in ruoli importanti verso una modernità al tempo poco compresa. Ci riferiamo innanzitutto all’indimenticabile Frank di Strade violente (Thief, 1981) di Michael Mann. Un’opera al contempo riassuntiva e seminale che vede in James Caan il protagonista perfetto, nel ruolo estremamente complesso dell’uomo dibattuto tra sete di vendetta e romantica esigenza di stabilità sentimentale e famigliare. Il grande cinema transgenere si avvicina alla parte più intima del pubblico. Ma come non pensare anche all’antieroe di Rollerball (1975) di Norman Jewison, altro lungometraggio lungimirante che legge alla perfezione, attraverso la violenza ludica rappresentata in un futuro distopico solamente in teoria, la deriva catodica su cui si avviava la società globale.
Ovviamente il nome di James Caan difficilmente può essere separato da quello di Francis Ford Coppola. L’autore che lo ha catapultato nel cinema di qualità già con un ruolo di rilievo nel bellissimo Non torno a casa stasera (The Rain People, 1969). Poi, tre anni dopo, venne l’epocale Il Padrino (The Godfather) con la parte di Sonny Corleone. Un ruolo leggendario che ha in parte “imprigionato” l’attore nativo del Bronx nello stereotipo del mafioso da cui Caan stesso ha provato ad evadere, nel corso della propria carriera, giocando con grande ironia su quella stessa immagine, in pellicole d’intrattenimento quali ad esempio Mickey occhi blu (1999). Ed è sempre Coppola a risollevare la carriera di Caan a seguito del periodo critico a cui si faceva cenno poc’anzi. Nel commovente Giardini di pietra (Gardens of Stone, 1987) interpreta, guarda caso, la figura di un alto ufficiale incaricato di decantare l’eroismo dei soldati, perlopiù giovani, caduti in Vietnam. Un film che precede uno dei ruoli maggiormente celebri di James Caan, quello dello scrittore Paul Sheldon nel thriller Misery non deve morire (Misery, 1990) di Rob Reiner. Tratto dalla ispiratissima penna di Stephen King, Caan riesce miracolosamente a rendere ogni possibile sfumatura del personaggio abilmente tratteggiato nel romanzo, passando dall’arroganza dell’artista di successo alla disperata condizione di un umana necessità d’aiuto. L’Oscar andò, anche per sacrosanti motivi inerenti al ribaltamento dell’eterna lotta tra sessi, alla bravissima Kathy Bates nel ruolo della fan psicopatica. Ma James Caan lo avrebbe meritato senza alcun dubbio, contribuendo a rendere incredibilmente denso questa sorta di kammerspiel declinato al nero che, a posteriori, fu una delle migliori opere del periodo.
Impossibile poi non menzionare le partecipazioni di James Caan, magari non in ruoli di primissimo piano ma comunque incisivi, in opere di autori decisamente di rilievo. Sempre nel 1990 fa parte del ricco cast di Dick Tracy di Warren Beatty, la migliore trasposizione fumettistica del periodo. Nel 1996 tiene a battesimo l’esordio alla regia di Wes Anderson con la commedia Un colpo da dilettanti (Bottle Rocket), già una precisa dichiarazione di poetica da parte dell’autore texano. Quindi il bellissimo dramma famigliare intriso di tragedia greca The Yards di James Gray, fallimentare al botteghino ma di notevole interesse critico. Poi Dogville (2003), in cui quella volpe di Lars von Trier ne rielabora a proprio modo l’immagine “padrinesca” in una mirabile parabola morale virata al nero di inusitato impatto.
Da questo sintetico e per forza di cose parziale ritratto non può che emergere la figura di un attore di razza. Un interprete capace di trasferire sul grande schermo ogni possibile inquietudine ed angoscia scovata nel profondo del proprio essere. I fondamentali del vecchio attore di una volta, insomma. Non sarà divismo, ma di certo grandezza.
Daniele De Angelis