Cinque sfumature di Lockdown
Il 2020 è stato marcato tragicamente dalla pandemia causata dal Covid 19, subdolo virus che ha mietuto vittime su vittime e sconvolto la vita quotidiana delle persone, ritrovatesi a rimanere chiuse in casa, comunicando con i propri cari solo per telefono o via internet, oppure rimaste improvvisamente senza lavoro. Questa dura realtà ha avuto sfumature differenti in ogni nazione, a seconda della gestione attuata, e a tutt’oggi, sebbene il virus sembri meno virulento, l’allerta è sempre alta. Chiaramente il cinema non si è lasciato sfuggire questo drammatico avvenimento che, tra l’altro, le misure di sicurezza e il Lockdown hanno – quasi – paralizzato l’intera filiera produttiva. Sono già fioccate differenti pellicole che hanno mostrato, attraverso diversi approcci, il Covid 19 e il relativo Lockdown, ma ecco che adesso viene presentato alla 78º Mostra di Venezia, dentro Le Giornate degli Autori, il film collettivo Isolation (2021), composto di cinque voci autoriali europee che a loro modo raccontano cosa è stato e cosa ha comportato il Lockdown nei propri paesi d’origine.
È un’operazione autoriale/produttiva che ricorda 11 settembre 2001 (11’09”01- September 11, 2002), nella quale undici registi internazionali furono reclutati per esprimere la loro personale visione su quel fatidico giorno. In Isolation la visione del Lockdown è rappresentata dall’Italia, dalla Germania, dalla Svezia e dall’Inghilterra. Va subito detto che, sebbene questa iniziativa sia lodevole negli intenti, atta a rafforzare la memoria e contribuire a far riflettere, è un’opera alquanto disuguale, e soltanto due corto-visioni su cinque sono incisivi. Eccetto gli episodi di Michele Placido e Olivier Guerpillon, che ripercorrono con diversi toni narrativi quei momenti, gli altri tre autori (Julia von Heinz, Jaco van Dormael e Michael Winterbottom) colgono l’accaduto per disquisire su altre tipologie d’isolamento.
Il primo episodio, diretto da Placido, unisce immagini girate da lui con lo Smartphone, nelle strade deserte di Roma durante il Lockdown, con alcune immagini d’archivio (le tragiche scene dei morti di Bergamo, l’omelia del Papa nella piazza vuota di San Pietro). Placido disserta anche con altri due artisti, Roberto Bolle e Andrea Bocelli, su quanto è accaduto, e conviene con loro che l’arte è più forte del virus. Il suo episodio è il meno riuscito del lotto, e sebbene voglia essere sincero, essendo una riproposizione personale di quanto accadde durante quel cupo periodo, gli sproloqui pseudo esistenzialistici di Placido, le opinioni dei due artisti coinvolti e il blando montaggio delle immagini d’archivio, affossano questo intento. Tra l’altro, a differenza degli altri quattro episodi, Placido evita qualsiasi appiglio politico.
Nel secondo brano, l’autrice von Heinz, partendo da una vicenda personale (la morte del padre durante il Lockdown) collega il concetto di “isolamento” con la solitudine che possono provare gli omosessuali che non riescono a fare coming out. Questa connessione è dovuta alla scoperta, casuale, che la regista fa riguardo alla vita privata del padre. Il tema è profondo e a tratti toccante, ma l’episodio è riuscito a metà, in cui l’aspetto privato e quello pubblico (il progredire della pandemia in Germania) non si fondono bene.
Olivier Guerpillon, francese ma dal 1993 stabilitosi in Svezia, è quello che riesce a costruire meglio un rendiconto visivo e riflessivo sul Lockdown. Narrando in modo cronologico, mischiando immagini pubbliche (le dichiarazioni del Premier svedese e il suo staff) con immagini girate da lui, l’autore mostra in modo dissacrante quanto di grottesco accadde in Svezia, ossia come lo Stato ha gestito la pandemia. Nel modo in cui è assemblato, con la voce fuori campo di Guerpillon che utilizza toni ironici, questo terzo episodio ricorda alcune irriverenti opere di Jean-Luc Godard.
Lo spezzone di Van Dormael inizia come quello di Guerpillon, mostrando alcune immagini d’archivio in cui si vede la nonchalance del governo belga riguardo al Covid, e poi passa a visioni – ricostruite – lugubri del lutto personale che ha provocato la pandemia. È un episodio ottimo a livello visivo, ma troppo cervellotico nell’esposizione.
L’ultimo, quello di Winterbottom, è un’operazione simile a quella della von Heinz: partendo dall’isolamento creato dal Lockdown, il regista inglese racconta l’isolamento di una madre e di un bambino stranieri che hanno ottenuto la richiesta d’asilo in Inghilterra. La loro situazione di profughi, lontani dalla famiglia, è già un isolamento (40 sterline settimanali date dallo stato, alla donna non è concesso di lavorare e al bambino di poter andare a scuola). Per tanto il Lockdown è una doppia prigionia. Anche questo è un approccio riuscito, perché la similitudine affrontata da Winterbottom calza, e fornisce anche informazioni sulla difficile condizione sociale di molti individui richiedenti asilo politico.
Roberto Baldassarre