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Irrational Man

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VOTO: 7.5

Uomini e SuperUomini

Dividere la filmografia di Woody Allen in due macro-categorie potrà forse sembrare una semplificazione eccessiva ma senz’altro fornisce una prima bussola orientativa in un percorso di analisi (da tempo non più pura psicoanalisi…) del suo cinema, una volta superata la boa dei cinquanta film da regista. Un’alternanza pressoché speculare tra film leggeri con parentesi drammatiche e film drammatici con parentesi umoristiche, spesso caustiche. Come se la dolcezza non potesse fare a meno di un tocco di amarezza e viceversa. Il tutto condito da puntuali ritorni, definiamole “rivisitazioni”, verso tematiche particolarmente care all’autore newyorchese. Irrational Man appartiene indubbiamente alla seconda categoria, se non altro perché reintroduce un argomento ciclicamente già affrontato da Allen, ovvero il delitto con o senza castigo conseguente. In Irrational Man – titolo che inquadra immediatamente, al pari dei lavori migliori dell’Allen 2.0, Blue Jasmine (2013) su tutti, un personaggio centrale del suo lungometraggio – la variazione sul tema consiste nell’alzare ulteriormente l’asticella sulle motivazioni che inducono al crimine più alto, cioè l’omicidio. Se in Crimini e misfatti (1989) si trattava di una tormentata eliminazione dovuta a motivi contingenti (un’amante che reclamava il proprio spazio nella vita di un agiato professionista felicemente sposato) in cui si tracciava un punto di non ritorno da un punto di vista morale, in Irrational Man non ci sono nemmeno le spinte pseudo-economiche presenti nella discesa nell’abisso sia in Matchpoint (2005) – quasi una rilettura yuppie del titolo appena citato – che in Sogni e delitti (2007): c’è invece il delitto come possibile spinta di liberazione da una completa apatia e successiva fonte di rinascita esistenziale.
Una parabola filosofica non a caso applicata sulle spalle di un personaggio che di mestiere fa l’insegnante di filosofia, in un corto-circuito narrativo dagli effetti deflagranti per chi ancora ragiona sulla “necessità” dell’omicidio come drastico depennamento della cosiddetta, presunta, mela marcia in ambito sociale. Facciamo dunque la conoscenza di Abe (interpretato dal sempre superbo Jaoquin Phoenix), professore di filosofia incapace di trovare un senso nella propria vita e perciò in piena depressione. Stringe contatti platonici con la studentessa Jill (Emma Stone) e pare insensibile alle avances sessuali della collega Rita (Parker Posey). Il punto di svolta arriva, in nome di quel Fato del quale l’essere umano – secondo l’Allen pensiero – sarà sempre in completa balia, ascoltando una conversazione da un tavolo attiguo in un ristorante, nel corso della quale una donna afferma, con dovizia di particolari, di avere l’esistenza rovinata dalla probabile ingiusta sentenza emanata da un tale giudice. Per Abe è una rivelazione. L’idea di aiutare la donna eliminando la fonte dei suoi problemi lo riporta a sentirsi parte attiva della propria vita, da oggetto passivo che ne era diventato. Nella sua essenzialità di stile la regia di Allen scava nella psiche del personaggio estraendone, da eccellente maieuta, la questione fondamentale: l’irresistibile impulso dell’Uomo ad avvicinarsi ad un Potere assoluto, semi-divino. Il filosofo, proprio colui che dovrebbe ragionare sull’ordine delle cose da un punto di vista etico, le osserva da una prospettiva del tutto ribaltata. Convintosi che il gesto definitivo di dare la morte possa fornire un senso esistenziale altrimenti impossibile da trovare. Riflessione universale da massimi sistemi – basta guardarsi un po’ attorno, nelle cronache di ogni giorno – che trova un perfetto controcanto nella banalità con cui Abe esegue il suo disegno, seguendo alla lettera e in senso quantomai simbolico il motto latino del “mors tua, vita mea”. Ovviamente da qui in poi Irrational Man (è ancora il titolo, al netto dei riferimenti letterari, a mettere sul chi va là lo spettatore, nonché a prendere implicitamente posizione in merito…) diventa altro rispetto alla più o meno amabile discettazione sulla teoria filosofica sin lì mostrata da Allen; il quale si diverte a rimarcare, per l’ennesima volta nel suo cinema, la differenza sesquipedale esistente tra elaborazione mentale di un modus vivendi ed il suo atto pratico nella realtà quotidiana. Quando si è costretti, volenti o nolenti, ad interagire con altre persone.
Irrational Man è dunque un film eccezionalmente stratificato, arricchito da un personaggio, quello di Abe, tra i più sfaccettati partoriti dalla metaforica penna dell’Allen sceneggiatore, nell’occasione più che mai presente e nel pieno del suo disincanto. Se qualcosa è mancato – ma è un parere soggettivo e perciò ampiamente dibattibile – in questa circostanza è stato il coraggio di portare un discorso così raffinato sino alle estreme conseguenze, probabilmente foriere di una vertigine di senso dalla quale sarebbe stato difficile riprendersi. L’aver scelto il finale – che ovviamente non sveleremo in questa sede – più “rassicurante” e peraltro più volte annunciato dalla segnaletica narrativa del film, lascia in chi guarda una sensazione tanto consolatoria quanto di vaga incompletezza. E tuttavia il vecchio Woody, stavolta, il segno lo lascia eccome…

Daniele De Angelis

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