Passaggio del testimone
In tutti questi anni il Far East Film Festival non ha certo lesinato attenzioni nei confronti del cinema di arti marziali. Sia che provenisse dalla solida tradizione hongkongese, sia che costituisse un esempio di ciò che può offrire il panorama non meno effervescente e variegato presente nel sud-est asiatico, con la Thailandia e l’Indonesia ovviamente in prima fila.
Lo dimostrano anche i grandi ospiti delle passate edizioni che a Wuxiapian et similia hanno legato, almeno in parte, le loro carriere: dall’irriverente Stephen Chow all’intramontabile Sammo Hung, da Jackie Chan (per cui qualsiasi aggettivo sarebbe superfluo) al compianto thailandese Panna Rittikrai, grande artista marziale cui si devono le coeografie di successi come Ong-Bak – Nato per combattere e The Protector – La legge del Muay Thai, deceduto purtroppo a Bangkok nel 2014. Lo si è voluto ricordare, a Udine, anche in quest’anno così particolare. E lo si è fatto durante la diretta streaming del 22° Far East Film Festival, che precedeva la proiezione di Ip Man 4: The Finale, capitolo conclusivo di una delle saghe che nel tempo ci hanno maggiormente appassionato.
Avevamo ancora in memoria le emozionanti sfide di Ip Man 3, ambientato nella Hong Kong del 1959. Ed ora il rodato binomio formato dal regista Wilson Ip e dal divo delle arti marziali Donnie Yen ci ha fatto compiere un notevole balzo in avanti nella biografia del grande Maestro del wing chun. Sì, perché dopo aver assistito alle sue mirabolanti imprese durante l’occupazione giapponese e, nell’immediato Dopoguerra, in una Hong Kong ancora condizionata dall’arrogrante presenza britannica, questo lungometraggio dalle atmosfere crepuscolari ma al contempo estremamente vive ha consentito al pubblico di seguire Ip Man nell’inedita e senz’altro complicata trasferta americana, determinata nel ’64 dal desiderio di trovare la scuola adatta per un figlio divenuto troppo indiscplinato e dall’invito del suo allievo più famoso, Bruce Lee, che non senza difficoltà stava tentando di esportare negli Stati Uniti tecniche e filosofia del kung fu.
Una figura che, complice Tarantino, nel cinema di oggi sta diventando quasi inflazionata, quella del leggendario Bruce Lee. Qui, però, grazie anche all’interpretazione misurata di Danny Chan, ne ammiriamo non soltanto l’agilità e lo stile di combattimento, ma anche i toni amichevoli e rispettosi nei confronti dell’anziano Maestro. Anziano, già in parte consumato dal male che di lì a poco lo avrebbe portato via, ma ancora in grado di dare lezioni di lotta (sul ring) e di vita (nei rapporti interpersonali) ai prepotenti di turno, nella fattispecie odiosi militari yankee dall’attitidine imperialista e sfacciatamente razzista.
Se i combattimenti, girati forse con un taglio più secco rispetto ai precedenti capitoli, ma pur sempre di rara eleganza e di sicuro appeal cinematografico, beneficiano in fondo di spazi minori (ed è comunque notevole, sul piano simbolico, la sfida lanciata dai rozzi e presuntuosi Marines a Chinatown), è la saggia filosofia di Ip Man ad imporsi progressivamente, seducendo lo spettatore. Non senza qualche “scontro generazionale”, che affinerà ulteriormente la già lodevole comprensione degli altri e del mondo, esibita dall’amato Maestro; il quale prima riuscirà, altra metafora di un certo valore, ad appianare i dissidi sorti all’interno della comunità cinese a San Francisco, per poi rimettere al loro posto pure quegli spacconi stelle e strisce che si ergono con eccessiva facilità a padroni assoluti della Terra. Scene d’azione ben coreografate, quindi, ma anche e soprattutto una morale armonica, positiva, che contribuisce senza ombra di dubbio a spiegare il duraturo successo di questa saga.
Stefano Coccia