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#IoSonoQui

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VOTO: 6.5

Una commedia leggera che ci ricorda di non fidarci dei social

Nella tranquilla campagna francese, Stephane (Alain Chabat) gestisce da una vita il ristorante di famiglia. E’ separato dalla moglie e con i suoi figli non ha un grande dialogo, tanto che è l’ultimo a scoprire l’omosessualità del minore, Ludo (Jules Sagot). Il maggiore invece, David (Ilian Bergala), ha l’aria del ribelle e sembra non avere grande rispetto per le abilità imprenditoriali del padre. In effetti, nonostante gli sforzi, le recensioni del locale su Internet non sono delle migliori. In tutto questo per Stephane arriva la crisi di mezz’età, anche grazie ad una misteriosa donna coreana, Soo (Bae Doona), con cui inizia ad avere una sempre più fitta corrispondenza virtuale, comprese delle piacevoli videochiamate. Da lei, sedicente artista, acquista perfino un quadro con cui dare un tocco di novità al vecchio ristorante, sostituendolo ad un vecchio e cupo dipinto che rivende. A sorpresa, la transazione frutta migliaia di euro. Tale inaspettato guadagno, oltre ad uno sciocco incidente con l’auto, lo spinge a una piccola follia: il desiderio di risentirsi vivo, giovane, di svecchiare la propria esistenza e di provare ancora emozioni forti, lo convince ad imbarcarsi senza indugi su un volo per Seoul, così da abbracciare di persona Soo.
La avverte con un messaggino quando è già sull’aereo e, con gioia, legge la risposta di lei che garantisce la sua presenza all’aeroporto della capitale asiatica. Al momento dell’arrivo, Stephane non sta nella pelle eppure, con disappunto, scopre che Soo non si presenta. Inaugura allora l’hashtag #iosonoqui, per ricordarle che è giunto in città e che la sta aspettando. Le giornate passano e, malgrado i ripetuti appelli, di Soo non c’è alcuna traccia. La vacanza strampalata del ristoratore francese è però appena agli inizi, perché la sua prolungata permanenza nell’aeroporto, e i suoi numerosi interventi sui social mediante il suo hastag-tormentone, cominciano a renderlo uno strano influencer, delle cui vicissitudini prendono ad appassionarsi utenti di tutto il mondo. Ma i sogni non possono durare in eterno e, prima o poi, Stephane deve decidersi a indagare su chi sia realmente l’invisibile Soo.
Questo #IoSonoQui di Éric Lartigau (anche sceneggiatore assieme a Thomas Bidegain), uscito più di un anno fa in patria, sa essere brillante, specialmente nella prima parte. Il modo stralunato in cui il protagonista vaga per settimane nell’aeroporto internazionale, scoprendone le innumerevoli attività, conoscendone i personaggi che lo popolano (abbiamo un debole per l’anziana addetta delle pulizie) ricorda certamente il Tom Hanks di The Terminal (2004), soprattutto quando, suo malgrado, ne diventa una sorta di contemporanea attrazione, portato alla ribalta dal bizzarro meccanismo dei social. E il suo cercare di relazionarsi con gli altri, usando un pasticciato misto di inglese e francese, il suo affannoso tentativo di comprendere una lingua così diversa come quella coreana, non può non riportare alla mente Lost in Translation (2003), anche se in quel caso Bill Murray era in Giappone. Una commedia sulle moderne assurdità della comunicazione virtuale, sulla falsa comunità del web che poi, nella pratica, sottolinea ancor di più le nostre spaventose solitudini. Ma anche una pellicola che, purtroppo, perde gradualmente smalto. E’ un po’ come se, a un certo punto, gli autori non avessero trovato la migliore risoluzione per quello che avevano messo a bollire in pentola con il loro cuoco. Stephane, bramoso di una nuova vita, scopre che forse questa già esisteva, bastava solo guardarsi meglio attorno nella sua bella, verdeggiante dimora. Lo comprende a sue spese anche in virtù di un alquanto stucchevole terzo atto, tirando per le lunghe una storia che, pressoché, ha già raccontato tutto da un pezzo. Il messaggio secondo cui il mondo reale e i rapporti che contano davvero non vadano cercati in un telefonino, però, è piuttosto banale. Senza contare che la metafora del viaggio che serve invero a ritrovare sé stessi, ormai, è diventata un po’ abusata.

Massimo Brigandì

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