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Intrigo: Samaria

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VOTO: 5

La verità può fare male

Se al termine della visione di Death of an Author ci siamo chiesti se potesse essere proprio il capitolo inaugurale l’anello debole della trilogia di Intrigo, dopo la proiezione di Samaria tra gli eventi speciali della 29esima edizione del Noir in Festival dobbiamo ricrederci.
Suo e nostro malgrado, il secondo film del trittico che Daniel Alfredson ha tratto dai romanzi di Håkan Nesser mostra dei limiti maggiori rispetto al precedente, che determinano un ulteriore passo indietro nel percorso di trasposizione. Limiti che si palesano in primis nel processo di riscrittura filmica. Strutturalmente diversi da un punto di vista narrativo e drammaturgico, Samaria ha il tallone d’Achille nella costruzione dell’architettura mistery, qui meno complessa e stratificata rispetto a Death of an Author che si erge invece sulle basi di un meccanismo scatologico a vasi comunicanti con un congegno cronologico di sovrapposizione di piani temporali veri e fittizi. Qui al contrario il racconto si alimenta di un timido e semplice palleggio tra presenta e passato, oltre che di tentativi di depistaggio andati a vuoto e forzature per fare quadrare i conti, con un colpo di scena in zona Cesarini efficace ma che non risolleva le sorti del risultato. Il tutto ereditato dalle pagine della matrice letteraria, che nemmeno i tradimenti e gli innesti fatti dallo stesso Alfredson e dalla co-sceneggiatrice Birgitta Bongenhielm nell’adattamento hanno attutito o colmato. Il progetto antologico, che consiste nell’associare storie e personaggi diversi attraverso elementi ricorrenti (il caffè Intrigo, la voce narrante nell’incipit, la presenza di figure secondarie in tutti e tre i capitoli come ad esempio la cameriera, oltre ai temi come la vendetta, la colpa e il tempo), è utile solo in linea teorica e ai fini di una veicolazione commerciale.
Mentre per scoprire il perché del titolo biblico ovviamente rimandiamo alla lettura del romanzo o alla visione della pellicola. Vi possiamo anticipare che ha che fare con la presunta scena del crimine dove pare si sia consumato il delitto di turno, quello della diciannovenne Vera Kall. Dieci anni dopo, Paula, una sua compagna di classe che lavora come documentarista, vuole realizzare un film su di lei ed entra in contatto con Henry, un copywriter di successo di Anversa che è stato il loro insegnante. Nonostante sia innocente, Jakob Kall è stato imprigionato con l’accusa di aver ucciso la figlia, di cui non è mai stato rinvenuto il corpo. Paula e Henry cercheranno di capire cosa sia veramente accaduto mentre i loro segreti verranno lentamente e inesorabilmente alla luce.
Samaria è un thriller fin troppo lineare e scarno, senza i sali e scendi o quei twist capaci catturare l’attenzione dello spettatore. La tensione resta latente e inspiegabilmente cristallizzata anche quando bisognerebbe spingere il piede sull’acceleratore nel momento in cui i nodi iniziano a venire al pettine. Ciò non accade e la fruizione resta monocorde, priva di sussulti. Quest’ultimi non vengono nemmeno dalle interpretazioni dei protagonisti Andrew Buchan e Phoebe Fox, ferme anch’esse a uno stadio embrionale a causa di personaggi bidimensionali non in grado di evolversi. Tecnicamente il cineasta scandinavo ci mette il solito impegno e sicurezza nel confezionare una regia utile alla causa, senza sbavature e puntuale nelle scelte da prendere per dare alla scena la veste giusta, ma non basta a gettare fumo negli occhi del fruitore, distraendolo così dalle pecche di scrittura.
A questo punto non ci resta che sperare nel capitolo conclusivo, augurandoci di non assistere al tanto temuto non c’è due senza tre.

Francesco Del Grosso

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