«Il lavoro dell’attore non è di costruzione, ma di decostruzione»
In questo momento in cui l’Italia deve cercare di resistere, divisa tra zone sempre più rosse a causa della pandemia, la Settima Arte prova a non fermarsi, anche se non può essere trasmessa nel buio di una sala cinematografica. L’unica soluzione sul piano distributivo diventano le piattaforme ed è così che dal 18 novembre potete trovare in esclusiva su Amazon Prime Video Il talento del calabrone di Giacomo Cimini.
«Milano. Steph (Lorenzo Richelmy) è un giovane DJ radiofonico sulla cresta dell’onda, molto popolare sui social media. Ogni sera conduce un programma radiofonico con un forte seguito durante il quale riceve chiamate dai fan. Una sera, una telefonata, però, lo raggela: uno sconosciuto (Sergio Castellitto) dal sangue freddo annuncia in diretta di volersi togliere la vita, facendosi esplodere nel centro della città. Steph cerca di gestire la situazione: l’attentatore minaccia di farsi esplodere se il DJ non lo intratterrà in diretta. L’uomo, che si fa chiamare Carlo, sfida Steph in un duello di resistenza mentale. Nel frattempo, il nucleo investigativo dei Carabinieri guidato dalla risoluta Tenente Colonnello Rosa Amedei (Anna Foglietta) si mette sulle tracce del terrorista e scopre che il piano dell’uomo è molto più complesso di quanto lui stesso voglia mostrare: è l’atto di un uomo dotato di un’intelligenza superiore, capace di mettere in scacco un’intera città con una sola, semplice telefonata» (dalla sinossi ufficiale). «Il film è strutturato come un lungo duello western, con rimandi alla tradizione del cinema di Howard Hawks e John Ford», ha dichiarato il regista, continuando «Lo scontro tra due personaggi mediato dallo sceriffo e un gruppo di personaggi di contorno che rappresentano maschere della contemporaneità. Il Calabrone (soggetto di Lorenzo Collalti, co-sceneggiatore insieme al regista) è un progetto che vuole filtrare il genere attraverso un’ottica autoriale […] racconta di un mondo indissolubilmente legato alla tecnologia e all’informatica, incapace di comunicare senza un supporto artificiale, fragile e quasi indifeso al cospetto di attacchi al proprio ‘sistema interconnesso’».
Abbiamo avuto il piacere di approfondire la realizzazione e alcune tematiche del lungometraggio con uno dei tre protagonisti, Lorenzo Richelmy, attraverso il quale abbiamo affondato anche lo sguardo sul nostro oggi e ripercorso alcune tappe di suoi lavori e incontri.
D: Cosa ti ha colpito istintivamente di questo progetto?
L. Richelmy: L’originalità su diversi aspetti: in primis è un thriller che si prende sul serio e in Italia non avviene solitamente, in quanto il genere viene usato ma come escamotage per realizzare la ‘copertina’ per un altro tipo di film. Quest’opera, invece, è molto semplice, un tipo di sceneggiatura che si vede poco da noi e allo stesso tempo è un thriller dritto, al contempo molto incentrato sugli attori perciò emerge anche, in parte, il lato umano dei personaggi. Ti tiene incollato non soltanto per sapere come va a finire la storia, ma conclusa la visione, non sei senza domande o senza pensieri. Questo è un film che ha un look abbastanza originale la cinematografia nostrana e, in più, mi ha dato la possibilità di fare qualcosa di diverso da quello che ho realizzato fino ad ora perché io, generalmente, sono un attore abbastanza fisico, avendo anche una formazione teatrale. Mi piace molto la messa in scena con gli attori e condividere con gli altri; ne Il talento del calabrone sono stato in una stanza da solo nella stessa posizione ed è stata un’esperienza assolutamente nuova per me perciò una sfida che ho accettato con piacere.
D: Proprio su questo punto e sul lavoro sul personaggio: come ci si approccia alla gestione dello spazio in un film come questo rispetto a Ride di Jacopo Rondinelli?
L. Richelmy: In quel caso ho fatto una settimana intensissima di preparazione, purtroppo anche velocemente perché ero entrato in sostituzione di un attore inglese che si era rotto una spalla durante le prove. Ride era un film quasi ‘comodo’ perché non avevo nessuna macchina da presa intorno a me, se non le GoPro, quindi si trattava di uno spazio senza limiti che ti dà molta libertà e rende anche il modo di approcciarsi al personaggio molto energico, frenetico dinamico; ne Il talento del calabrone è il personaggio a essere abituato a stare seduto sulla sedia, comandando da lì. Kyle e Max sono due due atleti la cui forza sta nel loro fisico; Steph, a parte una piccola parte che si scoprirà verso il finale, è presentato in maniera diversa. In virtù di questo la preparazione è stata differente: se per il lungometraggio di Rondinelli sono stato in sella a una bicicletta, distruggendomi le ginocchia in mezzo ai boschi; nell’esordio di Cimini ho comprato un microfono professionale e ho ricreato il mio piccolo studio radiofonico in casa per circa un mese. Mi sono detto: come faccio a capire in quale stato mentale è una persona quando sta lì e non sta parlando in realtà con nessuno, ma, invece, parla a migliaia di persone. Lavorandoci ho trovato il mio modo di stare in quella posizione, in quel luogo e in quel ruolo associando il lavoro sul personaggio.

D: In particolar modo con l’uomo interpretato da Sergio Castellitto, si può parlare di duello verbale (puntellato con dei silenzi)? Uno dei rimproveri che fa il prof. Carlo a Steph è connesso alla questione di saper ascoltare…
L. Richelmy: Uno dei temi sotto traccia è lo scontro generazionale: abbiamo il ragazzotto giovane che ascolta, molto popolare pure sui social per l’utilizzo di un linguaggio che appunto non prevede assolutamente nessun ascolto, che è molto rappresentativo di una certa parte di mondo che sta uscendo adesso. Tutto quello che vediamo sui social media rivela come la gente parli di sé a un pubblico non ben identificato, solitamente cercando di rappresentare la parte migliore, vendendosi come qualcuno di molto interessante. Nel caso del film il professore universitario Carlo/Sergio Castellitto innanzitutto ti fa sentire Bach e non la dance pop e poi ti costringe a un tipo di ascolto che non è quello su cui Steph va forte e cioè quello che ha un contraddittorio. È come se imponesse un dialogo a uno abituato a fare un monologo costante. La disintegrazione del personaggio di ‘copertina’ di Steph sta proprio nel voler osservare il fenomeno dei social media e della comunicazione moderna con occhio critico perché appunto nel momento in cui viene viene messa sotto attacco c’è poco contenuto effettivamente. Tornando al discorso generazionale ci si trova quasi di fronte a un padre che vuole per forza dialogare con un potenziale figlio per fargli acquisire (alla fine – e non aggiungiamo altro – nda) consapevolezza. Questo è chiaramente un salto all’interno del lungometraggio. Entrambi sono esasperati da un trauma che si svelerà con lo sviluppo del plot.
D: Inizialmente viene presentata Milano con tutte le sue luci e vitalità, il che ha un forte impatto se la si vede adesso durante la pandemia e, in particolare, il lockdown. Chi ha visto le due facce della città meneghina potrebbe avere un contraccolpo…
L. Richelmy: Milano è l’unica città all’avanguardia che abbiamo in Italia che puoi avvicinare alle altre capitali europee per le persone che incontri, per ciò che si fa e l’atmosfera che si respira. Sono molto fiducioso in realtà. Il covid è stata una botta molto grossa per tutti e, anzi, secondo me Milano è una di quelle città che si riprenderà più facilmente perché i cittadini e le persone arrivate nel capoluogo lombardo da altre regioni hanno voglia di fare quindi ritengo che vedremo una ripresa molto forte quando questo brutto capitolo della storia del mondo sarà finito. Credo tanto al fatto che Milano sia un po’ il nostro biglietto da visita nel mondo reale, non Roma – a cui sonno affezionatissimo – ma che è diventata un museo realizzato non per i romani, è ‘un po’ svenduta’. Milano è l’unica metropoli, con i suoi grattacieli e una downtown che punta verso il futuro; questo fa sì che se ambienti una storia a Milano, sarebbe possibile immaginarla a Tokyo così come a Milano.
Il talento del calabrone ha assolutamente senso che si svolga nella città meneghina, che è ancora poco esplorata dalla cinematografia italiana soprattutto nella sua nuova veste. Restituisce l’immagine di una città moderna, che ha i suoi difetti perché in quanto moderna è il posto giusto per la gente come Steph, però questa modernità cela in sé pure una fragilità. Una pandemia del genere ha fatto breccia così tanto perché apparteniamo a una società globalizzata. Milano, quindi, è molto bella nella sua modernità, che al contempo pesa perché può essere disinnescata come una macchina.
D: A un tratto una redattrice della radio evidenzia come gli ascolti e i commenti sui social stiano aumentando e questo può colpire lo spettatore, esplicitando il cinismo. Il talento del calabrone tocca anche questo elemento molto importante oggi. A tuo parere stiamo prendendo quella deriva?
L. Richelmy: Sicuramente. Il clickbate va proprio in quella direzione: una grande fetta del mondo della rete cerca di far soldi creando qualcosa che porti a posare lo sguardo e a cliccare. A nessuno interessa se quel contenuto abbia una direzione che possa essere vagamente culturale. Direi, quindi, che ci siamo già tantissimo: siamo in mano agli algoritmi da questo punto di vista. Un documentario uscito su Netflix, The Social Dilemma di Jeff Orlowski, racconta attraverso la voce di ingegneri di software che le grandi case non sono assolutamente interessate a cosa distribuire, ma che l’importante sono i numeri. È una trasformazione abbastanza macro su tutto il mondo cioè quello che stanno facendo i social media non sono altro che un’escrescenza di un processo lungo che, per esempio, ha portato la politica a essere completamente soggetta all’economia: i numeri contano più dei fatti concreti, l’economia virtuale vale più di quella reale così adesso i social media ti danno la possibilità di creare qualcosa che ha soltanto come scopo il numero della quantità e non la qualità e questa è una perdita incredibile. Noi adesso vediamo la fenomenologia più chiaramente; internet, essendo un moltiplicatore, ti mostra le conseguenze davanti agli occhi. In questo momento sono tutto fuorché qualcosa di sociale, anzi ti portano lontano dalla reale aggregazione sociale. Ho un rapporto molto complicato coi social, non li utilizzo molto, anche se faccio un lavoro per cui è quasi impossibile non usarli però la deriva l’abbiamo presa già è esplosa da un po’, speriamo di riuscire nel tempo a metabolizzare e a imparare a gestirli meglio.

D: Il professore a un tratto afferma, rivolgendosi a Steph: «entrare in simpatia con gli altri», ricordando l’origine greca del termine ‘simpatia’ e anticipa questa ‘lezione’ dicendo di «spegnere il proprio ego». Lui si rivolgeva a un dj, però si ha l’idea che l’attore abbia un proprio ‘ego’. Come hai fatto i conti con questo per metterti a servizio dell’arte e dello spettatore?
L. Richelmy: Ho avuto la fortuna di studiare sui testi buoni che ti insegnano, sin dall’inizio, che il lavoro dell’attore non è di costruzione, ma di decostruzione e che quando si propone un personaggio bisogna cercare di nascondere se stessi. È un rischio enorme nel senso che siamo abituati a vedere attori che fanno più o meno sempre loro stessi, realizzano una cosa che gli riesce bene e la ripropongono – quello fa parte del proprio ego, il che è semplicemente dannoso e poco prolifico.
I grandi attori non sono persone che hanno un grande ego, possono avere una grande personalità, ma l’ego lo celano dietro il proprio mestiere. Il problema più ‘superficiale’ è connesso alla popolarità: sei la stessa persona, hai compiuto un buon lavoro e per motivi che non dipendono esclusivamente da te, anzi, un mese dopo, sei famoso e la gente ti guarda con occhi diversi, ma tu non sei cambiato. È mutata la percezione tra le persone che ti osservano e quello che tu pensi di essere realmente, anche lì è molto delicato, il mio ‘trucco’ è quello di non prendermi mai veramente sul serio, che non significa non fare le cose seriamente, ma giocare realmente. Ad esempio ai tempi di Marco Polo, quando andavo in America e sembrava che potessi essere chissà chi, giochi a fare quel ruolo lì. Se tu non hai abbastanza strumenti, ti ci riconosci e nutri la parte di ego coltivata dagli altri, allora poi diventa un caos perché ti confondi le idee. Se vediamo l’ego come un contenitore, bisogna essere sempre attenti a riempirlo di cose proprie e non di cose che dicono gli altri su di te.
D: A proposito della ‘simpatia’ evocata dal professore, c’è stato un progetto che, invece, ti ha fatto entrare in simpatia col personaggio e di riflesso anche col pubblico?
L. Richelmy: Direi Dolceroma dove, nonostante il mio ruolo non fosse per nulla empatico, in realtà la percezione che avevo io era quello di essere assolutamente dalla parte del pubblico. Il mio Andrea Serrano sembra quasi una nota stonata in un film che procede; da dentro è il personaggio che si è dato di più al pubblico in assoluto – nonostante non ne esca fuori in maniera edificante. Vi avevo inserito tanti elementi personali, lavorati in chiave magari oscura, però veramente una parte di ciò che pensava il mio Andrea avrei voluto che lo pensassero anche gli spettatori nel momento in cui vedevano il film. È un procedimento diverso da Marco Polo, dove non hai lo spazio per realizzare un lavoro del genere.
D: Su Amazon Prime Video è presente tra i titoli Ferro, il documentario su Tiziano Ferro in cui parla di essere stato bullizzato e il cantante a un tratto afferma: «la musica mi ha salvato completamente la vita». Lorenzo, tu hai raccontato di aver subito episodi di bullismo, senza voler essere assolutamente invadenti, anche nel tuo caso l’arte ti ha salvato la vita?
L. Richelmy: Sicuramente la mia non era un’esperienza drammatica come quella di Tiziano Ferro; certamente è uno dei motori principali che mi ha portato alla recitazione. Il fatto di essere percepito in un modo dalle altre persone. Da piccolo ero grasso e non ero arrogartelo, timido per cui ero un bersaglio facile. Non è stata la recitazione a farmi reagire. Il mio periodo difficile è stato quello delle scuole medie; quando sono arrivato al liceo, ero da solo e mi son detto: da qui vita nuova, non rifarò gli stessi errori e cercherò di stare attento a non essere preso di mira. L’aver fatto esperienza in maniera così netta del fatto che le persone hanno una reazione diversa a seconda di come ti poni e può essere veramente solo un atteggiamento, quindi un proforma, qualcosa di insignificante rispetto a quello che sei, ma per gli altri cambia molto. Rendendomi conto di questo mi sono detto che sarebbe stato interessante osservare da vicino questo meccanismo: alla fine la recitazione, come diceva Brando, è un lubrificante sociale cioè il meccanico è un ‘attore’ (nel senso di ruolo). Ho subìto la percezione degli altri, con la recitazione ho imparato più a dominarla e a decidere io come gli altri mi avrebbero visto e, in tal senso, è stata una riscossa.
Tornando ai social media, in quest’ottica non aiutano. Nel film Carlo costringe il dj all’onestà e quindi a doversi guardare allo specchio; più, invece, andiamo verso una rappresentazione edulcorata di noi stessi, più lavoriamo verso la disonestà. Mi rendo conto che le nuove generazioni hanno sempre più difficoltà a trovare l’onestà nei rapporti. Un modo semplice e molto giusto anche per trovarsi tra persone anche diverse consiste nel mettere sul piatto le proprie debolezze, che sono il nostro minimo comune denominatore. Se non si ha paura né vergogna nell’esporle, ma le utilizziamo per darci forza, ci diamo una mano tutti quanti; ma purtroppo si ha timore nel parlarne. Spero che i ragazzi che sono cresciuti con Instagram, andando avanti si renderanno conto che magari avere il coraggio di chiedere a una ragazza di uscire piuttosto che avere il coraggio di ammettere una debolezza senza doversene vergognare è fondamentale nella vita, sicuramente più di quanto lo possa essere un profilo di successo sui social.
D: Sia quest’ultimo lavoro che quelli diretti da Rondinelli e da Resinaro sono opere prime. Cosa ti porta ad assumerti il rischio e, al contempo, a metterti a servizio di un esordio?
L. Richelmy: Non sempre accade, ma io sono stato fortunato: le opere prime hanno la qualità di avere dei registi che ti ascoltano perciò instauri un rapporto in cui puoi costruire insieme una storia. In particolare questi ultimi debutti dietro la macchina da presa a cui ho preso parte appartengono a un’onda nuova. Faccio molta fatica a fare questo mestiere annoiandomi; se, invece, un regista giovane ti concede la libertà di sperimentare cose diverse mi stimola molto. I film grossi si assomigliano un po’ di più perché hanno delle necessità anche soltanto di produzione. Sono e sarò sempre promotore di nuovi linguaggi e parteggio per l’univocità dell’arte. Amo gli autori e i lavori dritti. Non si può far contenti tutti e da noi c’è ancora questo timore di assumere, ad esempio, la responsabilità di un genere, si preferisce mischiare. L’Arte è soggettiva così come non credo nella bellezza come un canone. Ci sono stati i tempi d’oro degli anni Cinquanta e Sessanta; ma l’ambito artistico va avanti per rivoluzioni, non per continuazioni e noi una rivoluzione culturale ancora non l’abbiamo fatta e infatti ‘scimmiottiamo gli altri’. Poi ci sono delle eccezioni come Lo chiamavano Jeeg Robot – Gabriele Mainetti se l’è autoprodotto, anche perché era molto costoso. Ci sono diversi autori che stanno lavorando nella direzione giusta; ma la maggior parte si muove seguendo delle tematiche vecchie. Vediamo i semi.

D: Richiamando La terra e il vento di Sebastian Maulucci, nella condizione in cui ti senti oggi: ti sentiresti di andare più verso la terra o il vento?
L. Richelmy: Fino a un paio di anni fa ti avrei detto il vento; in questo momento direi un grande ritorno alla terra. Tutti contadini, siamo tutti grandi mani e braccia rubate all’agricoltura.
D: Condivideresti con noi un ricordo di Vittorio Taviani?
L. Richelmy: Un gran signore, un autore da rimpiangere, non da copiare. Con loro ho fatto un’esperienza incredibile: tornavo dalla mega-produzione americana al cinema d’autore italiano, con poche cose fatte bene. Ricordo che con loro parlavo tantissimo prima delle scene, con i Taviani facevi due ciak perché avevi già capito tutto. Vittorio sul set di Una questione privata non c’è stato quasi mai perché era già malato, ma prima del film mi sono goduto una pillola di quello che poteva essere il cinema d’autore vero, di una volta, in Italia. Paradossalmente ho avuto uno scambio enorme con loro, quasi al pari dei registi esordienti nonostante avessero realizzato decine di film e questo voleva dire incontrare artisti con un’incredibile esperienza, che nonostante tutto possedevano un occhio fresco e con cui potevi intavolare una discussione sul Cinema. Purtroppo loro avevano una modalità e un ritmo di lavoro che con le produzioni moderne è quasi impossibile adottare. Mi sono sentito graziato per aver potuto lavorare coi fratelli Taviani.

D: Sei partito dal teatro e fai parte di una famiglia teatrale, come mai non sei più tornato?
L. Richelmy: Il teatro è un po’ una scommessa. Ho partecipato, con una compagnia di amici che avevo creato, con dei ‘piccoli’ progetti a rassegne come “Trend”. Paradossalmente amo il teatro talmente tanto che ho tanta paura di farlo perché ho molto timore di realizzarlo in un modo che non mi piace – e da noi ho visto diversi spettacoli non riusciti; altri certo che funzionavano. In realtà il 2020 sarebbe dovuto essere il mio ritorno sulla scena, stavo organizzando uno spettacolo con Max Mazzotta che insegna in università. Sarei dovuto partire a marzo 2020 con la tournée, interpretando Macbeth. Appena riaprono i teatri voglio tornare sul palcoscenico con questo lavoro e, provando la pièce, mi sono reso conto di come valga sempre la vecchia regola per cui il teatro è degli attori e il cinema è dei registi.
D: Hai altri progetti che puoi anticiparci?
L. Richelmy: Entro l’anno dovrei realizzare un horror francese da girare in inglese. Si gira sul Monte Soratte, vicino Roma, in un bunker.
D: Cosa pensi di U.N.I.T.A. – Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo, che sta facendo dei passi importanti per la categoria?
L. Richelmy: Sono molto contento che sia stata creata e mi unirò appena posso. Mancava in Italia. In America, in Inghilterra e in Francia sono tutti organizzati per porsi come lavoratori; da noi siamo ancora nell’Ottocento. Se dici in giro che sei un attore, si fanno una risata e replicano: “sì vabbè però che fai per vivere?” E tu che controbatti: “non hai capito: faccio l’attore, ho studiato e questa è la mia professione”. È incredibile: la gente passa la metà del tempo davanti a degli schermi a vedere dei prodotti audiovisivi e ancora fa fatica a capire che tutta la gente che ci sta dietro sono professionisti. Spero che questa associazione riesca a far percepire un po’ al sistema paese Italia come cinema e teatro siano un mezzo di cultura, attività essenziali. L’ultima volta che ho rinnovato la carta d’identità non esisteva l’opzione attore, dovevo inserire libero professionista e questo è significativo. Come recita il nome dell’associazione: più ci uniamo e meglio è.
D: Tornando a Il talento del calabrone, visto che Steph si rivolge, in particolare, ai giovani, tu cosa vorresti che arrivasse assolutamente di questo film e, nello specifico, ai ragazzi?
L. Richelmy: Vorrei che emergesse la necessità dell’ascolto e infondesse il desiderio di un ritornarsi a parlare veramente. Mi auguro che chiunque veda il film si fermi a pensare un attimo cosa voglia dire mettersi a confronto e dialogare, che significa porsi nella condizione di cambiare idea.
Maria Lucia Tangorra