Alla radice delle radici: intervista al regista di “Per un figlio”
È toccato a Suranga Deshapriya Katugampala, cingalese di nascita e veronese d’adozione, l’onore e la responsabilità di rappresentare la cinematografia nostrana nel concorso della 52esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove la sua pellicola d’esordio dal titolo Per un figlio ha raccolto applausi, consensi e una menzione speciale. Ed è proprio nel day after della proiezione marchigiana che lo abbiamo incontrato per una breve intervista. Cornice scelta, il suggestivo cortile di Palazzo Gradari.
D: Come e quando è nato il progetto?
S.D.K.: Questo film nasce dal desiderio di esprimere delle mie urgenze, in particolare quella di raccontare il conflitto culturale e generazionale tra la cosiddetta prima e seconda generazione. Poi da queste urgenze si è passato a capire come produrre il film. Come prima cosa, si tratta di un’opera realizzata grazie a un grande lavoro collettivo. In tal senso, non volevo avvalermi dei metodi tipici del cinema industrializzato. Nel caso di Per un figlio il processo di realizzazione del film è parte integrante del film: quindi chi coinvolgere, come coinvolgerlo e con quale aspetto umano coinvolgerlo. Dunque, non solo professionisti, anche se di professionisti del mondo del cinema ce ne sono, ma soprattutto di provenienza cingalese. Il perché di questa scelta? La risposta è molto semplice: volevo valorizzare le maestranze e non solo dello Sri Lanka, perché in particolar modo in Italia vengono catalogati solo in certe professioni. Per cui lì ho portati qui – anche in modo un po’ clandestino se vuoi grazie a visti turistici – e li ho coinvolti attivamente nelle riprese. Oltre a questo, da un punto di vista produttivo, il film ha avuto il riconoscimento e il contributo del Premio Mutti-Amm della Cineteca di Bologna e dell’Archivio Memorie Migranti che hanno apprezzato e supportato il progetto. Successivamente è subentrato Gianluca Arcopinto che ha sposato in pieno il mio modo di lavorare e le mie idee sui temi trattati.
D: Al di là dell’appartenenza alla comunità cingalese, quanto c’è di te e di autobiografico nella storia che racconti?
S.D.K.: Ci tengo a dire che per me Per un figlio è a tutti gli effetti un film italiano, perché rappresenta una dinamica italiana. Detto questo, non si tratta di un film autobiografico, però ha preso molto dalle storie che mi circondano. Nella mia comunità (parlo di quella cingalese di Verona) siamo soliti scambiarci e confrontarci sulle esperienze che viviamo, arrivando a condividerle dal vivo, telefonicamente o via e mail. Dunque, c’è un forte valore reale e non è tutto inventato. Ad esempio, un po’ come nella pellicola, anche io come il protagonista ho solo mia madre, che è venuta qui in Italia da clandestina, ma questo non significa che la storia sia autobiografica.
D: Sempre sulla comunità cingalese in Italia hai realizzato una serie per il web dal titolo Kunatu, ora hai realizzato un film ambientato nella medesima comunità, non hai paura di rimanerci ingabbiato?
S.D.K.: Non ho paura di rimanerci ingabbiato, perché questo è un processo ed è un percorso quello che sto facendo. Sono d’accordo con te sul fatto che il rischio che ciò possa accadere sia molto alto, lavorando spesso sulla mia comunità di appartenenza, ma ci ho e ci sto riflettendo sopra e cercherò di evitarlo. In questo momento sono felice di essere partito da storie che in qualche modo mi riguardano da vicino, perché penso che io stia costruendo delle fondamenta della mia visione cinematografica che si avvicina a un cinema che viene dal basso, dal realismo e da esigenze. Del resto, faccio cinema perché voglio fare cinema.
D: Come ti spieghi che rispetto a tante altre comunità quella cingalese ha trovato solo di rado spazio nella Settima Arte; e quando ciò è accaduto è stato soprattutto nell’ambito della commedia (vedi Into Paradiso o Machan)?
S.D.K.: Perché siamo convinti che l’integrazione sia l’unica forma. L’integrazione per me, così come viene percepita oggi, non funziona. Funzionerà a livello superficiale. Da qui questo vedere sempre il cingalese nel ruolo del badante e via dicendo. I personaggi finiscono così per essere superficializzati. Il modo in cui questi sono stati il più delle volte rappresentati è legato a una visione comune fortemente stereotipata. Poi penso che non ci sia stato un vero approfondimento sulla realtà della comunità cingalese in Italia e non solo. Spero con tutto il cuore di aver contribuito a raccontarla in una maniera diversa, allontanando lo spettatore di turno dall’idea stereotipata che se ne ha.
D: A questo punto mi viene da chiederti: qual è il tuo concetto di integrazione?
S.D.K.: Sul concetto di integrazione, io nutro dei dubbi, perché per me è una forma di omologazione. Non credo sia la strada giusta quella che si sta seguendo. Penso che la parola integrazione sia una parola un po’ sbagliata e decisamente invecchiata. Per me si deve parlare di incontro, che porta anche al rispetto delle origini, delle tradizioni e delle culture altrui. Dunque preservare e non omologarsi alla cultura dell’arrivo.
D: Il tema della migrazione è sempre più al centro della cronaca extra cinematografica; qual è il tuo pensiero a riguardo, anche rispetto alla visione che ne danno i media?
S.D.K.: Sicuramente davanti a certe tipologie di immagini e rappresentazioni provo un forte fastidio, perché penso che dietro ci sia una certa superficialità in chi le realizza. La causa torno a dire e del mal funzionamento del processo di integrazione. Anche al cinema si assiste a una visione superficiale e spesso stereotipata. Prendiamo ad esempio un film come Fuocoammare. Si tratta di un’opera molto importante, diretta da un grandissimo regista, che ha saputo allontanarsi dalla suddetta visione, ma avrei preferito più un lavoro che partisse dai migranti e non sui migranti. Ma al di là del film di Rosi, al cinema vedo molta falsità, ma soprattutto c’è una sempre più crescente speculazione sul tema da parte di persone e colleghi che non credono in quello che raccontano e mostrano. Il risultato finale poi lo dimostra e lo spettatore se ne accorge quando ciò che vede sullo schermo è falso. In questo vedo una forma di democratizzazione e il regista deve farci i conti.
D: Tra gli scopi del film c’era anche quello di dare una veste universale alla storia?
S.D.K.: Assolutamente si. Questo è un film universale, ambientato in una contemporaneità che può essere traslata anche in altre comunità, non solo in quella cingalese in Italia. Il fatto di non aver dato alla storia una connotazione spaziale va in questa direzione. Solo il dialetto veronese presente nel film può in qualche modo suggerire l’appartenenza dei personaggi a un’area geografica, ma per il resto quella di Per un figlio è una storia che parla di conflitti familiari e generazionali, che possono nascere ovunque. Per questo ho amato tantissimo il Bellocchio de I pugni in tasca; un film che mi ha insegnato moltissimo, ad esempio a rappresentare i problemi sociali attraverso contesti sociali, quindi stando all’interno delle mura di una casa. Da parte mia, penso e spero di essere entrato nell’intimo dei personaggi, volevo stare in casa in loro compagnia, per questo ad esempio non sono mai entrato in una scuola e nessuna scena è ambientata all’interno di una classe. Volevo raccontare piccole dinamiche casalinghe. In generale sono molto attirato dal cinema che viene da lontano, come ad esempio dalle Filippine e da registi come Lav Diaz. Sono affascinato da quei registi che, per quanto difficile e complicato sia, non vedono il cinema come una questione industriale, ma come una questione di esistenza umana e tutte le loro scelte partono da lì.
D: Nel film ci sono attori professionisti e non, come hai lavorato nella costruzione dei singoli personaggi?
S.D.K.: Per costruire i personaggi abbiamo lavorato in un certo modo; un modo in cui credo moltissimo. Questi sono entrati a far parte di una sceneggiatura che prevedeva solo uno scheletro privo di dialoghi, perché volevo che fossero gli attori e i personaggi che li interpretavano a decidere cosa dire e quando dirlo. Questi, a mio avviso, li ha resi vivi e veri, impedendo alla recitazione di venire fuori. Dall’attore professionista non voglio che si appoggino a dialoghi pensati. In tal senso, penso che sia l’attore stesso, anche quello più bravo, a doversi scegliere i dialoghi, naturalmente dopo che il regista gli ha spiegato bene il contesto e le motivazioni che ci sono alla base delle varie scene. Questa per me è la dimostrazione di aver capito il personaggio.
D: Lo stile del film è molto asciutto e netto, rigoroso ma allo stesso tempo estremamente libero. In che modo – e se ciò è avvenuto – le poche disponibilità economiche di una produzione low budget hanno influenzato le tue scelte stilistiche?
S.D.K.: Cominciamo con il dire che l’entità del budget non ha minimamente influenzato la componente stilistica ed estetica del film. Sicuramente ha guidato e imposto alcune scelte produttive e tecniche (ad esempio l’uso di una videocamera piuttosto che un’altra per le riprese, gli spostamenti o il catering), ma in nessun modo ha cambiato l’idea registica che avevo rispetto allo stile da utilizzare. Per me era importante rispettare la mia idea iniziale e il tipo di regia che avevo pensato. Naturalmente, anche io da amante del cinema ho dei riferimenti, a cominciare da Bresson e dal suo pensiero sulla recitazione e sul personaggio, sino ad arrivare a una visione documentaristica. Il tutto però al servizio di un’urgenza e di un mio stile personale. Sono un grande appassionato di realismo e cerco di unire questa passione con delle componenti puramente estetiche e cinematografiche. Un realismo e uno sguardo documentaristico che ho assecondato facendo a meno della musica. Volevo una storia che apparisse sempre reale, che potesse succedere a chiunque e che fosse completamente avvolta nel e dal nostro contesto, quello della Società italiana.
D: Cosa ti aspetti dal pubblico?
S.D.K.: Mi aspetto un desiderio di voler entrare nei personaggi e di non volerli a tutti i costi giudicare, perché io non l’ho mai fatto. Piuttosto vorrei che venissero compresi, perché comprendendo si arriva a una conoscenza.
D: Che percorso hai immaginato per questo tuo primo film, pensando alla disastrata situazione distributiva che c’è in Italia?
S.D.K.: Un percorso difficilissimo[ride], però sono anche curioso di vedere come andrà, perché sono cosciente che quello che ho fatto è abbastanza fuori dai canoni. Non mi aspetto qualcosa di preciso, ma spero che possa essere visto da più persone possibili.
Francesco Del Grosso