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Intervista a Massimo D’Orzi

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La genesi di “Bosnia Express”, amatissimo dal pubblico del Trieste Film Festival

A CineClandestino conosciamo il cinema di Massimo D’orzi da anni, ne abbiamo sempre apprezzato la sincerità, l’impronta etica, gli impulsi creativi non omologati. L’impressione è che con Bosnia Express, da poco nelle sale ma già molto amato dal pubblico di festival decisamente colti, sia arrivata una possibile consacrazione. Noialtri il film lo abbiamo scoperto proprio grazie al 33° Trieste Film Festival. Ed essendo rimasti affascinati da questo documentario sui generis, lirico, struggente e al contempo straordinariamente lucido, abbiamo voluto aggiornare certe vecchie chiacchierate con il regista…

D: Tracciando un parziale background dell’ultimo lavoro, Massimo, da dove nasce il tuo legame coi Balcani? “La domanda nasce spontanea”, come era solito dire qualcuno, perché parecchi anni fa, ben prima di Bosnia Express, vi era stato Adisa o la storie dei mille anni
Massimo D’orzi: Nasce da un viaggio inaspettato nel 1996. Studiavo a Roma, ma in quei giorni ero in Toscana a trovare la mia famiglia e mi dissero che un volontario cercava accompagnatori per portare aiuti a Mostar. Lui lo aveva fatto per tutto il periodo del conflitto. Partii e dopo 24 ore mi ritrovai immerso in una distruzione indicibile. Oltre agli edifici sventrati e alle mine su cui saltavano ogni giorno tanti bambini, conobbi molte donne. Beba, Ana, sua figlia di tredici anni. Ana era una bella donna, era stata violentata ripetutamente da decine di uomini. I suoi occhi erano diventati di vetro. Non chiudeva più le palpebre. Erano fissi. Quando rientrai in Italia mi rinchiusi in casa per giorni dallo shock e dal dolore!! Anni dopo tornai in Bosnia deciso a girare il film che poi avrebbe preso il nome di Adisa o la storia dei mille anni. Una splendida donna bosniaca, Fatima, conosciuta a Roma mi aveva detto: “Abbiamo capito che la guerra stava iniziando quando abbiamo visto i Rom fuggire. E abbiamo compreso che stava finendo quando li abbiamo visti tornare”.

D: Allargando ulteriormente il campo delle nostre riflessioni, quali sono (a parte il libro di Luca Leone, del quale parleremo diffusamente più avanti) le opere letterarie e/o cinematografiche di cui si è nutrito, in maggior misura, il tuo immaginario relativo alla Bosnia e ai paesi dell’ex Jugoslavia?
Massimo D’orzi: Molte letture hanno accompagnato questo viaggio. Da “Il ponte sulla Drina” e I racconti di Sarajevo di Ivo Andric, a Maschere per un massacro di Paolo Rumiz, da La figlia di Clara Uson, all’importantissimo “Noi, criminali di guerra” di Giuseppe Zaccaria, da “Come se io non ci fossi” di Drakulic Slavenka a “Un viaggio in inverno” di Peter Handke, e poi “Le guerre Jugoslave” di Jože Pirjevec, ai libri e gli articoli del grande scrittore e intellettuale Predrag Matvejević, da “La guerra in casa” di Luca Rastello a “L’attentato di Sarajevo” di Georges Perec fino alle poesie di Izet Sarajlić e la “Banalità del male” di Hanna Arendt in cui si parla molto di Balcani. Questi solo per citarne alcuni. E poi molti libri di storia. L’espressione di Churchill “I Balcani producono più storia di quanta riescano a digerirne” nel suo cinismo dice che quello che succede lì è fondamentale per tutta l’Europa e non solo. In effetti non si possono capire i Balcani se non si fa un po’ di storia. Un anno fa ne scrissi su Left in un articolo intitolato “Le tre eresie” a cui rimando il lettore. Ma il debito più grande è con lo psichiatra Massimo Fagioli. Non avrei mai potuto raccontare in questo modo la violenza e la capacità di reagire a quella distruzione fisica e mentale senza gli strumenti teorici, metodologici e umani teorizzati e praticati da quel genio nell’arco di tutta la vita.
Per quanto riguarda i riferimenti cinematografici penso, in questi giorni in cui è scomparsa la straordinaria Monica Vitti, al cinema di Antonioni che mi ha sempre ispirato fin dall’inizio, ovvero all’idea che il cinema è un’indagine, che la realtà è solo il punto di partenza per giungere a qualche forma di verità che si cela dietro l’apparenza delle cose. In Bosnia questa lezione è stata di fondamentale importanza per me. E poi alla ricerca dell’immagine femminile. Nessuno come Antonioni (e Buñuel, forse Bergman) sa che per sapere del mondo e di te stesso, devi sapere delle donne. In Bosnia Express sono la bussola, il termometro, il compasso, la formula, il raggio di luce…

D: Venendo ora a “Bosnia Express” di Luca Leone, cosa ti aveva colpito del libro, tanto da ispirarti per il nuovo lavoro? E sia i pensieri sui Balcani che quelli sulla guerra espressi dalla voce fuori campo durante il film vengono da lì o sono tratti anche da altri testi, magari da tue personali annotazioni di viaggio?
Massimo D’orzi: Il libro di Luca Leone, è stato la scintilla, quello che mi ha spinto a tornare, a riparlare di quei luoghi, di quella gente, di quel popolo dopo Adisa o la storia dei mille anni. Nel libro di Luca, che invito tutti a leggere, c’è l’amarezza, la denuncia, la rabbia per veder deluse e tradite le aspettative delle vittime nel lungo dopo guerra. Leggendolo un giorno in treno, ho risentito anch’io il “Mal di Bosnia”. Tuttavia il film è molto diverso dal libro. Di quest’ultimo conserva la struttura a tappe, a stazioni, come un racconto medioevale in cui ad ogni passaggio si apre una finestra su un mondo, storie di vita. Il linguaggio cinematografico è completamente diverso dal linguaggio letterario, ma nonostante questo, più che in altri miei lavori, ho sentito che la parola diventava importante, fondamentale, strutturante il racconto stesso. Ed in effetti è la colonna su cui si avvitano a spirale le immagini del film. Ma come si avverte guardandolo, quelle parole dovevano trasmettere l’urgenza di quelle immagini e fondersi con esse, quindi c’è molto del mio lavoro, delle mie sensazioni e delle mie elaborazioni sul campo. Inoltre il film tratta il tema del rapporto fra “Religioni e nazionalismi”, “Donne e religioni” che è un inedito del film e ne fa la sua originalità. Devo aggiungere che nel 2016 è uscito il mio romanzo “Tempo imperfetto”. Un giallo. Un’indagine. Un corpo a corpo con un delitto e un dialogo costante con il lettore che, senza dubbio e senza saperlo, ho riportato anche qui, anche se si tratta di uno spettatore.

D: Nel commentare la poetica del tuo Bosnia Express mi è scappata un’espressione, “lirismo umbratile”, che vorrebbe sottendere anche le intime suggestioni presenti in certe inquadrature, volutamente stranianti, come pure le prospettive particolari e i dettagli non così usuali dei luoghi, delle stanze, dei paesaggi, dei volti. Come descriveresti a tal proposito le tue scelte registiche?
Massimo D’orzi: Ho amato l’espressione “lirismo umbratile” perché coglie un aspetto importante del mio lavoro: il lavoro sull’ombra, ovvero cogliere, come dicevo prima, dietro l’apparenza delle cose, mostrare punti di vista inediti, inaspettati, qualcosa che squarcia una fissità, e fa comparire, semplicemente, ‘qualcosa’ sul volto di una donna, di una bambina, di un artista. E’ un punto fondamentale del mio lavoro, il rapporto che si crea fra la cosa rappresentata e la rappresentazione della cosa. Lì avviene qualcosa, “deve” succedere qualcosa che cambia e trasforma entrambi: ciò che stai rappresentando, tu che la stai raccontando e infine lo spettatore, il pubblico che assisterà alla visione. Ecco perché non sono un seguace del Cinema del reale. La realtà non ha immagini. Le immagini le creano gli uomini che scelgono, selezionano, danno forma alle cose, durante le riprese e poi, nel caso del cinema, col montaggio. Nel caso di Bosnia Express il montaggio è un aspetto rilevante del linguaggio del film, e Paola Traverso, con questo lavoro ricco e complesso, dimostra di avere uno sguardo sensibile e creativo nel montaggio e di essere una delle migliori professioniste nel suo campo. Infine c’è nel mio lavoro il senso, l’esigenza di dimostrare che l’ombra, come era stato già per “Adisa o la storia dei mille anni”, non è affatto il Male ma l’inizio della conoscenza su ciò che di più profondo e vitale abbiamo come esseri umani. Ce lo insegnano Caravaggio e Giordano Bruno.

D: Nel corso del viaggio attraverso la Bosnia che ha portato al tuo film, quali sono le tappe che personalmente t’hanno emozionato di più? E ci sono state epifanie inaspettate, rispetto alle quali vorresti raccontarci qualcosa?
Massimo D’orzi: Dopo “lirismo umbratile” passiamo alle “epifanie”. Anche questo termine mi appartiene. Fra l’altro è appena uscito un bel libro per Racconti Edizioni “Epifanie” di James Joyce. Lo cito perché Joyce è stato un amore e uno studio di gioventù quando ho portato in scena “Esuli” dell’autore irlandese, testo poco conosciuto e poco affrontato ma estremamente importante. Ebbene le epifanie sono “rivelazioni” “verità”, qualcosa che ci accade quando riusciamo a fondere ciò che sentiamo con ciò che vediamo, creando una sorta di sospensione, una magia, frutto appunto di qualcosa che si svela e si rivela dentro di noi. Nel mio cinema cerco molto questi momenti, in realtà si gira proprio per giungere fin lì, a queste rivelazioni. In Bosnia, come ho più volte detto, non era facile mettere insieme, fondere, ciò che vedevi da ciò che sentivi e pensavi. Quindi, a volte (spesso) queste “epifanie” si creano anche in montaggio. E’ il linguaggio del cinema. Riscorrendo il film, penso, tuttavia, alle due ragazze musulmane, le due Amine, all’interno della Facoltà Islamica di Pedagogia o alla scena fra le due ragazze che si raccontano al tramonto sulla collina che domina Sarajevo; penso alle bambine e i ragazzi che giocano a calcio a fianco del Memoriale di Srebrenica, al coro delle donne nella stazione di Tuzla, al canto delle donne musulmane sul ponte di Mostar o i due rocker che chiudono il film, alle ragazze sotto la doccia. Il film è, di fatto, un insieme di epifanie, di rivelazioni.

D: Tra le tappe del viaggio vi è ovviamente Trieste, importante anche per la genesi di tale progetto cinematografico. Cosa puoi dirci a riguardo?
Massimo D’orzi: Amo Trieste! Per la sua eleganza “umbratile”, il suo essere città di frontiera, per essere allo stesso tempo fieramente isolata e attraversata. E’ il porto di partenza, l’inizio del viaggio. E’ il luogo da cui le ragazze lanciano lo sguardo (strappano i veli dagli occhi), che ci permette di partire, riattraversare geograficamente e mentalmente, nello spazio e nel tempo, la Bosnia e i Balcani. E poi Trieste e l’intera regione sono stati importanti perché hanno sostenuto attraverso le loro istituzioni WEMW e la FVG Film Commission il film fin dal suo nascere.

D: Per restare in tema, come è stata l’accoglienza riservata a Bosnia Express al Trieste Film Festival e in altre manifestazioni cinematografiche, che l’hanno finora ospitato? Infine, di quale visibilità beneficerà ora il film?
Massimo D’orzi: L’anteprima al Trieste Film Festival ripaga da sola di molte fatiche affrontate per realizzare questo film. Devo tantissimo, e non finirò mai di ringraziarli, ai due direttori Fabrizio Grosoli e Nicoletta Romeo. Se il film ha la forza oggi di uscire in sala a testa alta è anche merito loro. Questo per dire che non tutti i festival sono uguali e che a Trieste trovi ancora intelligenza e profondità, ricerca, incontro, umanità, e che non tutti sono allineati al carrozzone o alle scelte “facili” e “cablate” di molti festival nazionali e internazionali. In precedenza, a settembre il film è stato in concorso a Visioni dal Mondo, festival internazionale che sta contribuendo alla selezione e alla promozione di film di qualità. Il film, grazie a Luce Cinecittà, è dal 1 Febbraio nelle sale italiane, lo stiamo accompagnando in tutte le città e la risposta del pubblico è stupefacente per calore, emozione ed empatia. Come se al di là del battage pubblicitario, le persone sentissero l’importanza di questo film, per ciò che racconta, per il taglio inedito, per il senso di liberazione, per osare mettere “fuori scena” i criminali, per la scelta di campo di dare la scena alle donne, alla loro intimità, senza grandi trovate, semplicemente con la loro esistenza, intelligenza, vitalità che è sempre stata attaccata, negata, annullata. Come la storia della Bosnia ci racconta. E poi già sappiamo che il film avrà una vita importante anche all’estero. Grazie a Rai Com che cura la distribuzione internazionale riconoscendone l’universalità. Si vedrà in Francia dove il film sarà distribuito da Films Sans Frontières. In alcuni importanti festival internazionali che lo hanno selezionato e altri che lo promuoveranno nel corso dell’anno in Nord America.

Stefano Coccia

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