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Intervista a Jim Sheridan

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Un pomeriggio con l’autore de “Il mio piede sinistro”

In qualità di mediapartner della decima edizione dell’Irish Film Festa abbiamo avuto l’onore e il piacere di incontrare privatamente Jim Sheridan, ospite d’onore della manifestazione in svolgimento alla Casa del Cinema di Roma, qualche minuto prima del suo incontro ufficiale con il pubblico. Dublinese di grandi capacità comunicative ed istintiva simpatia, ha risposto sagacemente alle nostre domande, trasformando l’iniziale intervista in una piacevolissima chiacchierata culminata con un “outing” sulle sue passioni calcistiche. Ecco il resoconto.

D: Mr Sheridan, lei ha esordito nel cinema alla non giovanissima età di quarant’anni con lo straordinario successo de Il mio piede sinistro. Quali sono le sue origini artistiche?
Jim Sheridan: Provengo dal mondo del teatro. Grazie al teatro ho viaggiato per il mondo, fattore questo che ha contribuito in maniera decisiva ad allargare i miei orizzonti. Per anni ho vissuto a New York, occupandomi di un piccolo teatro. In America (2002) è quindi un film in buona parte autobiografico perché racconta il mio approccio con la società statunitense.

D: Cosa pensa di Brexit e delle politiche del neo presidente statunitense Donald Trump?
Jim Sheridan: Mi sento un uomo appartenente al mondo e, come tale, sono contrario a definire confini o barriere. La volontà popolare va ovviamente rispettata ed è dunque il popolo che andrebbe convinto a prendere decisioni differenti. In questo particolare momento storico non ci siamo, in tutta evidenza, riusciti.

D: Nei suoi film è sempre stata costante la descrizione di contesti sociali popolari, a fare da sfondo mai passivo a storie di personaggi – spesso realmente esistiti – decisamente “forti”. Secondo lei è ancora possibile dedicare la giusta attenzione al proletariato nel cinema contemporaneo, oppure si rischia di rimanere senza un pubblico di riferimento?
Jim Sheridan: In realtà è sempre più difficile. La televisione ormai ha imposto una serie di regole nella scelta del prodotto, attraggono lo spettatore medio solo storie di cui può fantasticare di far parte. E’ raro vedere ambientazioni autenticamente popolari in storie d’amore, drammi intimi ed altri tipi di film. I produttori vedono il cinema essenzialmente come evasione ed il pubblico vuole trascorrere qualche ora in sala senza pensare a problemi economici o roba simile. Decisamente è stato per me assai più facile girare lungometraggi come Il mio piede sinistro, Il campo e The Boxer nel periodo in cui sono stati realizzati. Ora ci sarebbero sicuramente maggiori difficoltà.

D: Abbiamo sempre ammirato, nel suo cinema, l’altissima qualità della recitazione degli interi cast da lei diretti. Ha un suo metodo particolare?
Jim Sheridan: In genere lascio campo libero all’istinto dell’interprete. Mi piace catturare con la macchina da presa quella spontaneità che si manifesta magari anche nelle prove che facciamo. Il segreto è cogliere l’essenza del personaggio, arrivandoci anche attraverso una recitazione non perfetta. Faccio l’esempio di Daniel Day-Lewis, con il quale ho lavorato in tre film (Il mio piede sinistro, Nel nome del padre e The Boxer, ndr) e che è un attore di professionalità maniacale, capace di calarsi completamente nel ruolo. Ebbene io lo incitavo ad essere meno perfetto, poiché così sarebbe arrivato ad una descrizione più umana del personaggio. Le prime volte si è un po’ arrabbiato, poi ha capito cosa intendevo (Sheridan sorride). Adesso viene addirittura usata la computer graphic per correggere l’espressione facciale di un interprete. Io amo il naturalismo, come quello raggiunto appunto da Daniel interpretando il poliedrico artista Christy Brown ne Il mio piede sinistro.

D: Poco tempo fa Paul Verhoeven, a Roma per presentare il suo Elle in uscita italiana, faceva presente le difficoltà avute con i metodi produttivi negli Stati Uniti. Lei ha avuto un percorso artistico simile, lavorando per tre film di produzione americana, Get Rich or Die Tryin’ (inedito in Italia), Brothers e Dream House. Cosa ci può dire in proposito?
Jim Sheridan: Le differenze sono sostanziali. Nella lavorazione di un film negli Stati Uniti sono sempre molte le persone che pretendono di mettere bocca. Il prodotto è finalizzato alla fruizione del pubblico, non è così automatica l’equazione buon film uguale successo al botteghino. A loro preme incontrare il gusto dello spettatore, poi che il film sia oggettivamente riuscito o meno non è che sia un fattore determinante. Ci sono le proiezioni test (quelle organizzate dalla produzione per saggiare eventuali reazioni del pubblico. Ndr) che sono una specie di stillicidio. Per me è inconcepibile cambiare un film a seconda del parere di pochi spettatori. Ho avuto una pessima esperienza, in questo senso, con Dream House. Firmi un contratto e sei “condannato” a rispettare certe clausole. Alla fine ho mandato tutti dove “non batte il sole”. Non è mai stato il film che avevo in mente.

D: Progetti immediati per il futuro?
Jim Sheridan: Ancora storie che raccontino di drammi personali e scelte esistenziali da affrontare. E’ questo il tipo di cinema che preferisco e voglio continuare a fare.

L’amichevole intervista si conclude parlando di calcio. Mr. Sheridan ci fa sapere di essere da sempre tifoso del Manchester United, non nascondendo un certo disappunto nell’apprendere del pareggio casalingo a reti inviolate della sua squadra contro il West Bromwich Albion. Avrà modo di consolarsi ampiamente con i calorosi applausi che gli riserverà, di lì a poco, il pubblico romano…

Daniele De Angelis

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