Nei meandri oscuri della mente umana : intervista al regista de “Il Ministro”
La quinta edizione del Prato Film Festival è stata l’occasione per il pubblico della cittadina toscana e non per misurarsi con tutta una serie di opere che il cieco e distratto panorama distributivo nostrano non ha saputo valorizzare abbastanza. Tra quelle apparse sugli schermi, per una manciate di giorni e in poche copie, in una stagione 2015-2016 oramai giunta agli sgoccioli, figura Il Ministro, terza prova dietro la macchina da presa del regista e sceneggiatore Giorgio Amato (suoi il web movie Circuito Chiuso e il dramma The Stalker). La partecipazione del suo nuovo film nel concorso della kermesse pratese, dove si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura e quello per il migliore attore protagonista, è stata l’occasione perfetta per incontrarlo e rivolgergli qualche domanda sulla sua carriera e sulle tematiche a lui care.
D: Hai conseguito una Laurea in Sociologia con specializzazione in Criminologia; come mai il questa scelta? Come hai sfruttato questo percorso accademico nella tua carriera da regista?
G.A.: Si ho conseguito una Laurea in Sociologia con indirizzo in Comunicazione e Mass Media. Poi affascinato dalla criminologia e dai misteri della mente umana, volendo scrivere spesso del lato oscuro di ognuno di noi, ho pensato di fare un percorso formativo parallelo, partecipando a un Master Biennale di Criminologia Forense a La Sapienza di Roma. Volevo avere una cognizione quanto più completa possibile del tema, cosa che la Laurea in Sociologia non mi poteva dare per ovvie ragioni. Allo stesso tempo, però, non volevo fare un percorso di psicologia o psichiatria, per cui quello più pertinente e in linea con le mie esigenze era proprio quello in Criminologia In tal senso, cerco di portare avanti una linea di pensiero ben precisa. Sono un ex atleta e sin da bambino ho sempre praticato sport. Ciò ha contribuito a formarmi e a far nascere in me il pensiero che per fare ogni cosa bisogna seguire un determinato allenamento; e quindi per poter affrontare una data tematica devo essere preparato al meglio possibile, proprio per una questione di completezza. La stessa forma mentis che seguo anche adesso che faccio il regista. Escludendo Il Ministro, dove ho raccontato in chiave di commedia altre cose, nei miei film precedenti ho lavorato molto sulla personalità oscura dell’uomo.
D: Cinematograficamente parlando sei rimasto fedele a certe tematiche e i film che hai fatto come regista e anche come sceneggiatore, ossia Psychomentary di Luna Gualano, lo dimostrano; come sei riuscito a creare questo filo rosso nonostante le diversità di genere e registro di queste opere?
G.A.: In particolare Circuito chiuso era il tentativo di raccontare la quotidianità di un serial killer, passando attraverso la vita piatta e monotona di tutti i giorni. All’epoca scrissi talmente tanto materiale sul personaggio, che alla fine dovetti scrivere anche un romanzo per poterlo utilizzare in gran parte. Questo materiale consisteva nella sua biografia passo dopo passo.
D: Le storie che hai portato sullo schermo sino a questo momento ci hanno rivelato anche una tua predilezione per gli spazi chiusi e circoscritti, pensiamo al già citato Circuito chiuso, ma anche a Il Ministro; concordi?
G.A.: In realtà c’è un filo conduttore che mi ha sempre affascinato molto, ossia il rapporto differente che c’è tra le persone nella Società e quello che si viene a creare all’interno delle mura domestiche. Sono del parere che nelle case si nascondono tantissimi segreti e le porte chiuse servono proprio a custodirli. Ci si sorprende tutte le volte che in un’intervista si sente che il carnefice di turno sembrava una persona tanto a modo, un vicino di casa perfetto e incapace di commettere simili atrocità, ma quello che avviene all’interno degli appartamenti sono degli spaccati di vita assai drammatici e intensi, che possono nascondere sofferenza e disagio. Per cui, mi ha sempre affascinato raccontare di un nucleo familiare una volta chiusa la porta di casa. Di fatti, questo c’è sia in Circuito chiuso che ne Il Ministro, ma anche in The Stalker. In quest’ultimo, infatti, sono andato a mostrare le dinamiche di una coppia esplosa, entrando nell’intimità delle quattro mura.
D: Ne Il Ministro fai subito una dichiarazione d’intenti scrivendo nell’incipit: “ispirato a fatti probabilmente realmente accaduti”. In tal senso, tu hai raccontato la cosa più banale del mondo, che tutti pensano, ma che alla fine nessuno ha mai il coraggio di dire e di gridare.
G.A.: Si, mi ha molto stupito il fatto che non ci sia un film, anche per la tv, che racconti una storia di ordinaria corruzione. Per cui ho volutamente cercato di mettere in scena una situazione che raccontasse questo, anche se poi alla fine la corruzione in quanto tale è solo la cornice in cui si svolge il mio film. Il tema centrale sul quale ho lavorato è quella incoerenza di noi cittadini che ce la prendiamo sempre con i politici di turno, ma alla fine se ognuno di noi avesse la possibilità di avere un Ministro o un uomo di potere come amico, in quanti rinuncerebbero a chiedergli un favore; e fino a che punto saremmo disposti ad arrivare pur di ottenere dei privilegi. Che poi è quello che succede in ufficio o nelle dinamiche aziendali tutti i santi giorni: il collega che farsi bello agli occhi del capo non esita a calpestarti o a metterti in cattiva luce. Penso che sia un tipo di storia che aveva una certa urgenza di essere raccontata, proprio per le cose che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni. Da “mani pulite” in poi, quella che doveva essere una moralizzazione della politica in realtà non c’è stata. La questione morale è ancora oggi aperta, il principale problema strutturale dell’Italia resta la corruzione che frena lo sviluppo. E nonostante tutto questo sia accertato e dichiarato, comunque non trova rimedio.
D: Pensi che questo tuo ultimo film possa essere anche un compendio sul malcostume italiano e non solo sulla corruzioni?
G.A.: Assolutamente si. Ho scritto i vari personaggi osservando quello che mi è accadeva nella vita quotidiana. Mi sono semplicemente guardato intorno e ho ripensato a certe situazioni e dinamiche.
D: Nel film tocchi argomenti delicati e scottanti, non risparmi niente e nessuno, compreso il Vaticano; pensi che questo possa aver influito sugli aspetti produttivi e distributivi, rendendo il percorso de Il Ministro ancora più tortuoso?
G.A.: [Cenno di assenso con la testa] Tre produttori ai quali ho presentato il progetto mi hanno chiesto di cambiare molte cose all’interno della sceneggiatura, tra cui il finale e il disegno del protagonista che avrebbe dovuto redimersi dopo aver capito lo sbaglio commesso, ma ho deciso prendendomi tutti i rischi di non cambiare nulla e di fare un film assolutamente indipendente, con pochissimi mezzi, ma come ce lo avevo in testa. Il tutto rimanendo fedele al mio pensiero e al mio percorso autoriale.
D: Stilisticamente hai preferito la macchina a mano piuttosto che una regia pulita e geometrica; come mai questa scelta?
G.A.: È stata una scelta stilistica prima di tutto dettata dalle esigenze produttive. Non avevo il tempo necessario per posizionare il carrello e provare i movimenti o fare le prove degli attori con la macchina da presa. Non avevo il tempo, perché ho girato il film in sedici giorni. Avevo una media di otto/nove pagine di sceneggiatura al giorno, per cui dovevo tenere dei ritmi assolutamente alti e non potevo inventarmi niente di particolarmente elaborato dal punto di vista registico. Ma nonostante questi limiti ho comunque cercato di mantenere uno stile, mettendo la macchina a spalla e girando il più possibile. Probabilmente avrei usato lo stesso stile anche se avessi avuto una situazione produttiva economicamente più solida, perché poi mi sono reso conto che la macchina a spalla si confaceva molto alla nevrosi dei personaggi. Quindi anche il modo di stargli così addosso non fa altro che assecondare questa nevrosi. Effetto, questo, che forse con l’uso di una steadycam o di un movimento più fluido di carrello non avrei mai ottenuto.
Francesco Del Grosso