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Intervista a Bruno Bigoni

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Il sottile confine tra realtà e finzione

Bruno Bigoni si è fatto conoscere a una più ampia fetta di pubblico con Veleno (1993), pellicola che fu insignita del premio Anteprima ’93 come miglior film indipendente italiano.
Lo abbiamo incontrato alla 34esima edizione del Torino Film Festival dove ha presentato il suo ultimo lavoro: Chi mi ha incontrato, non mi ha visto. Per i milanesi segnaliamo che potrete vedere il mockumentary al Filmmaker Festival domenica 4 dicembre, ma ora la parola a Bigoni.

D: In questi ultimi anni il genere mockumentary è stato frequentato moltissimo. In Chi mi ha incontrato, non mi ha visto lei riesce a trattare, in modo spontaneo e semplice, il connubio realtà-finzione, con un’efficacia maggiore rispetto ad altri lavori costruiti in modo più elaborato… Come vede lei il mockumentary e come mai ha scelto di applicare questo linguaggio?
B. B.: La parola mockumentary me l’hanno assegnata dopo perché quando ho cominciato a pensare a questo progetto non mi ponevo il problema di cosa stessi facendo e generalmente applico quest’idea anche in merito alla durata. A me interessava una cosa che fosse il più possibile credibile e che, pure dal punto di vista storico, filologico e letterario, funzionasse per ciò che si vedeva. Col tempo ho compreso che l’unico che poteva recitare tutto ciò ero io – e non è stato per nulla semplice – perché poi, in fin dei conti, viene, tra i vari aspetti, raccontata una passione senza fine.
Gli ho conferito una chiave documentaristica, dopo averlo visto finito, però, ho compreso che si trattava di un mockumentary che poteva avere un significato e che rifletteva non solo su Rimbaud, ma tanto altro, anche per questa ragione l’ho intitolato così. Chi mi ha incontrato, non mi ha visto è sì una frase del poeta, ma fa pensare anche a chi questo mestiere lo fa di incontrare continuamente, senza riuscire a vedere davvero quello che ha davanti. È un po’ come ascoltare, ma non capire.

D: Lei vuole che resti la domanda nello spettatore se ciò a cui ha appena assistito sia vero o meno?
B. B: Certo, anche perché per me è vero, ma anche se non lo fosse, sicuramente è ciò che accadrebbe qualora emergesse un inedito di Rimbaud (e con questa risposta, cari lettori, il mistero continua a esserci, nda).

D: A un tratto, uno degli intervistati, Steve Della Casa, fa una battuta rispetto al mondo accademico e all’approccio di chiusura che solitamente ha su alcune scoperte. Lei la condivide?
B. B: Sì la faccio mia, anche se è vero che il problema degli inediti è davvero complicatissimo, ce ne sono di qualunque cosa ed è impossibile avere la certezza al 100% che ciò che stai acquistando sia vero. C’è anche un notissimo film di Orson Welles che parla di questo: F come falso (1973). È chiaro che il mondo accademico e la critica letteraria di fronte a ciò che si vede nel film può solo dire: “io non sono sicuro”. L’unico che mi incoraggia è sostanzialmente, guarda caso, un critico, ma anche un regista. Devi scegliere da che parte stare. Siamo in un mondo in cui è difficile comprendere ciò che abbiamo davanti.

D: Quanto di scritto e di improvvisato c’è in questo lavoro?
B. B: La maggior parte del film è scritta, la parte più estemporanea è quella in Francia con mio figlio, arricchita di un ulteriore significato: che senso ha oggi, per un ragazzino di quattordici anni parlare di poesia. Guarda caso, però, colui di cui gli racconto, a quell’età scriveva già poesie. Si crea così la dimensione di una scrittura che cambia la vita, della ribellione e dell’attenzione alla capacità della poesia di rivoluzionare il mondo. Sono pensieri che magari adesso non lasciano tracce immediate, ma io credo che la semina sia sempre molto utile per le giovani generazioni.

D: Questo progetto nasce “sulle ceneri” di un altro…
B. B: Sì io vi lavoro da tredici anni. Avevo scritto un film che, a suo modo, riprendeva questa storia, erano previsti degli attori e tra i personaggi vi era un professore universitario che discuteva coi suoi studenti dell’attualità di Rimbaud e questi lo deridevano proprio perché oggi ci sono altri miti. Ho abbandonato quest’idea vista anche la difficoltà di trovare finanziamenti, ma nel profondo non si abbandonano mai i figli quando li hai concepiti per cui l’ho realizzato sotto queste vesti.

D: Nella parte in Francia, non emerge solo la questione generazionale, ma anche il rapporto padre-figlio. Sembra che lei voglia trasmettere come un figlio rigetti istintivamente l’insegnamento del padre…
B. B: È proprio così. Ciò che mio figlio dice e fa è lui, io ho filmato semplicemente ciò che lui ha fatto e avrebbe fatto. Questo è esemplificativo anche di come veramente Rimbaud non esista più per i giovani di oggi, anche se le lettere che arrivano indirizzate a lui dimostrano che non è completamente dimenticato, forse è stato rimosso per alcuni. Lui è il Jimi Hendrix della poesia.

D: Ad un tratto in Chi mi ha incontrato, non mi ha visto un intervistato afferma: “un mito è sempre un pericolo”. Che ne pensa?
B. B: Io ho avuto i miei miti e non mi hanno mai fatto particolarmente paura. Il primo mito cinematografico è stato Rodolfo Valentino. Alla sua morte per appendicite nel 1926 – e alcuni dissero che era stato ucciso -, lo stesso giorno, sei giovani donne si suicidano. Al suo funerale accorse un fiume di gente. Quello è un mito che fa paura, già dopo non registriamo reazioni simili. Se si usa quell’espressione nell’accezione da critico letterario, lì si entra in un ambito, invece, che non mi compete.

D: Mi piacerebbe concludere quest’intervista ricordando il periodo di fondazione dell’Elfo di Milano a cui lei ha preso parte…
B. B: Il primo Elfo, precedente alla cooperativa, è stata un’associazione culturale che nasce nel ’72. Io ero entrato in università e con Gabriele Salvatores e altri (tra cui Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, attualmente co-direttori artistici, nda) abbiamo messo insieme questo gruppo. Studiavo cinema e potremmo dire che il teatro, in quel periodo, era un amante. Per me il teatro è stato fondamentale in quanto è l’idea della messa in scena, oltre che del lavoro con gli attori. Quest’anno torno esordendo con la prima regia. Dal 2 al 7 maggio sarà in scena, a Milano, al PACTA SALONEviaDini “Storie di invertebrati” (scritto dallo stesso Bigoni con Riccardo Magherini e Maria Eugenia D’Aquino). Continuo a frequentarlo molto anche come spettatore. Il teatro ha una valenza terapeutica che nessun’altra cosa ha per cui serve anche a me per star meglio.

Maria Lucia Tangorra

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