Il tempo si ferma a Ushimado
Con l’espansione delle città, la necessità di abbandonare i piccoli centri per trovare lavoro e, soprattutto, il bisogno di un numero sempre maggiore di servizi, non sono pochi i villaggi che, nel corso degli ultimi decenni, si sono via via trasformati in veri e propri villaggi fantasma. Eppure, in ogni angolo del mondo, ve n’è sempre qualcuno in cui risiedono ancora pochi abitanti: si tratta perlopiù di persone anziane che non hanno intenzione di abbandonare i propri luoghi e che vivono di agricoltura o di pesca. Ed è proprio di un piccolo villaggio di pescatori che il regista giapponese Kazuhiro Sôda ha voluto raccontarci nel suo ultimo documentario. Stiamo parlando di Ushimado, piccolo paesino situato sulle sponde del mare Seta, dove la piccola comunità che lo abita viene intervistata e filmata dalla macchina da presa del giovane cineasta nel toccante e doloroso Inland Sea (Minatomachi), presentato in anteprima alla 68° edizione del Festival di Berlino, all’interno della sezione Forum.
Un anziano uomo, con il volto pieno di rughe, sale sulla sua barca da pesca e si dirige, come di routine da moltissimi anni a questa parte, verso il paesino in cui abita. La telecamera, inizialmente, si limita a osservare ossequiosamente i gesti dell’uomo, spostandosi, di quando in quando, dalla sua figura al paesaggio circostante. I ritmi sono lenti, contemplativi, non vi sono tagli di montaggio o ellissi temporali. Quasi come se ci si volesse preparare, in religioso silenzio, all’arrivo in un posto tanto isolato quanto affascinante come Ushimado. Ed è una volta giunti qui che lo stesso regista inizia ad interagire con i pochi, anziani abitanti del posto, ascoltando rapito le loro storie e sinceramente curioso di come siano soliti trascorrere le loro giornate. Si tratta di persone dedite principalmente alla pesca o alla vendita stessa del pesce, perfettamente integrate in un contesto come quello di Ushimado e che, trascorrendo il loro tempo libero dando da mangiare ai numerosi gatti randagi che popolano il villaggio e prendendosi cura delle tombe al cimitero, sembrano ormai rassegnate al fatto che, ben presto, il loro amato villaggio resterà deserto.
Kazuhiro Sôda – giapponese di nascita, ma statunitense di adozione, il quale da sempre ha dato vita a prodotti dai toni particolarmente contemplativi che tanto, soprattutto in alcuni momenti, sembrano volerci ricordare addirittura i lavori del celebre cineasta filippino Lav Diaz– sembra fin da subito perfettamente in sintonia con ciò che sta raccontando. Al punto di essersi voluto dedicare quasi del tutto da solo alla realizzazione del documentario, per il quale, appunto, non ha curato solo la regia, ma anche la fotografia ed il montaggio. Ciò che fin da subito maggiormente colpisce, però è l’elegante bianco e nero adottato, che sta a darci l’idea di un luogo senza tempo, di personaggi che esistono ai giorni nostri, ma che sarebbero potuti esistere anche dieci, venti, cinquanta anni fa. Un bianco e nero nostalgico e malinconico, che, allo stesso tempo, sembra guardare Ushimado come un luogo già appartenente ad un’altra epoca.
Non si può non affezionarsi agli anziani intervistati. Ognuno di loro, malgrado la calma raggiunta, non smette mai di sorprendere con storie spesso anche violente e dolorose, storie di un passato non facile, il quale appare nei loro occhi oggi vivo più che mai.
E poi ci sono i gatti. Trattati alla stregua di veri e propri bambini, il villaggio di Ushimado ne è pieno: gatti randagi, di fatto senza padrone, ma, in realtà con tante persone che si prendono cura di loro; gatti in carne, giocherelloni ed affettuosi, che, abituati ad essere sempre coccolati, si sentono fin da subito perfettamente a loro agio davanti alla macchina da presa di Kazuhiro Sôda, avvicinandosi e rotolandosi davanti ad essa senza alcuna remora. Ma questo viaggio fuori dal tempo, come tutte le cose, ha una fine. E così, verso sera, è ora per il regista e per la sua piccola troupe di salutare le persone incontrate. Un momento malinconico e quasi commovente, che trova la sua giusta conclusione con brevi inquadrature di stradine deserte, illuminate solo dalla luce dei lampioni.
Viaggio o sogno? Sembra voler essere questa la domanda che il regista vuol fare in modo che lo spettatore si ponga. Probabilmente, entrambe le cose. E così, quasi come a svegliarsi da un lungo sogno, nell’ultima inquadratura, il bianco e nero lascia pian piano il posto al colore. Scelta registica suggestiva e potente che si classifica come il giusto coronamento di un lavoro pregiato e ben realizzato. Una delle inaspettate sorprese di questa ricchissima 68° Berlinale.
Marina Pavido