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Incontro con Gianni Amelio

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Incontro con il regista, sceneggiatore e scrittore calabrese alla 13esima edizione di Cortinametraggio

Tra i numerosi e prestigiosi ospiti della 13esima edizione di Cortinametraggio, vetrina di punta nel circuito festivaliero internazionale per quanto concerne la cinematografia breve diretta da Maddalena Mayneri, un occhio di riguardo non poteva non essere rivolto che a Gianni Amelio, approdato tra le nevi delle Dolomiti per una serie di appuntamenti che lo hanno visto protagonista nel corso della sei giorni cortinese, a cominciare da un workshop di regia e recitazione. Ed è proprio lì che lo abbiamo incontrato durante un’interessante round table alla quale abbiamo avuto la possibilità di partecipare, organizzata nella splendida cornice del Grand Hotel Savoia. Un’occasione, questa, che non ci siamo fatti sfuggire per dialogare face to face con il cineasta calabrese, a una manciata di giorni di distanza dalla cerimonia di premiazione dei David di Donatello 2018 che lo ha visto in corsa con otto nomination per La tenerezza.
L’incontro ci ha dato l’opportunità di parlare della sua ultima fatica dietro la macchina da presa e dei meritati quanto tardivi riconoscimenti conquistati dal suo interprete principale, ossia Renato Carpentieri, ma anche della sua recente creazione letteraria dal titolo “Padre quotidiano” e del cortometraggio da lui diretto e incentrato sul terremoto di Amatrice, Casa d’altri. Quest’ultimo, così come il suddetto romanzo, presentati nella serata finale della kermesse veneta. Il tutto dopo avere tracciato un piccolo bilancio della sua carriera sino ad oggi.

D: A questo punto della sua vita e della sua carriera, qual è la sua più grande conquista e quale, invece, la sua più grande sconfitta?

Gianni Amelio: Io trovo che la mia conquista è di fare oggi questo lavoro con una serenità che prima non avevo. Quando ho fatto il mio primo film, ossia Colpire al cuore, nonostante avessi anni di televisione e di gavetta alle spalle come aiuto regia, ricordo che caddi nel panico più totale da prestazione quando sentii su di me la responsabilità di un lungometraggio molto impegnativo per quanto concerne l’argomento che trattava. Nel 1982 decisi di parlare di terrorismo, proprio nel momento in cui era una realtà di tutti i giorni. Ne parlavo in termini abbastanza particolari, perché raccontavo la storia di un figlio che sospettava il padre di essere in qualche modo connivente con i terroristi; quindi un cattivo maestro come si diceva allora. Fare un film ambientato a Milano su quell’argomento, mentre ogni giorno proprio a Milano c’erano degli attentati, era un fatto che mi turbava molto in rapporto al mio lavoro. Non ho aspettato che la realtà sedimentasse, raccontando in presa diretta in un film ciò che mi stava accadendo intorno. Ciò mi terrorizzò moltissimo. Poi le cose sono cambiate. Quando qualche anno dopo ho fatto Porte aperte, lo stesso macchinista che lavorava con me da sempre mi disse: “Gianni mi sembri Monicelli”. Quello è stato il complimento più grande che mi potesse fare, perché parlava di un maestro che ormai aveva talmente dentro le proprie mani quello che è nobilmente mestiere, da farlo con scioltezza e con l’accettazione anche dei problemi che accadono tutti i giorni e dei possibili errori che uno può fare.
Di sconfitte, invece, sinceramente non me ne ricordo. Sconfitte proprio no, ma di delusioni, al contrario, ne ho memoria anche piuttosto recente. Quando si fa un film non si sa e non si può sapere quale esito avrà. Magari uno fa un film nel quale crede molto e poi non ha l’esito che sperava. Oppure se ne fa uno dal quale magari ci si aspetta di meno, perché è più difficile e più controcorrente, ma che poi viene accettato. Ad esempio, uno dei miei ultimi film dal titolo L’intrepido aveva nel cast un attore molto forte come Antonio Albanese e un argomento trattato con molta leggerezza. Eppure non è arrivato al pubblico come La tenerezza che, al contrario, è un film molto duro, con dentro una drammaticità forte e con un protagonista non molto conosciuto come Renato Carpentieri. Nonostante il suo non fosse un nome da cartellone da un punto di vista commerciale, La tenerezza è andato molto meglio in termini di incassi della pellicola precedente. Ma questo è nell’ordine delle cose.

D: Restando a La tenerezza, perché secondo lei c’è voluto così tanto tempo per riconoscere i grandi meriti attoriali di Renato Carpentieri?

Amelio: Con La tenerezza, Renato Carpentieri ha battuto un record: è il primo attore nella storia del cinema italiano a vincere con lo stesso film i quattro premi più importanti attribuiti in Italia, ossia il David di Donatello, il Nastro d’Argento, il Globo d’oro e il Ciak d’oro. Quando accade a un attore meraviglioso come lui, che però ha dovuto aspettare moltissimi anni per fare la prima parte da protagonista più o meno assoluto, vincere in questo modo è una grande soddisfazione. Ma allo stesso tempo c’è anche un po’ di amarezza perché non è avvenuto prima. Questo accade quando il talento va meno di moda. Dal canto suo, Renato non ha mai aspirato ad essere di moda o accattivante. Cioè non si è svenduto per dirlo con parole molto crude.
Alla cerimonia dei David, Renato ed io eravamo seduti uno dietro l’altro ed è stata l’occasione per ripensare al suo debutto cinematografico nel mio film Porte aperte. Lui all’epoca era già un attore straordinario e i duetti con Gian Maria Volonté in quella pellicola rappresentano dei momenti di grandissimo cinema. Ma per quella interpretazione non vinse nulla e ci rimase molto male, mentre Volonté si portò a casa dei riconoscimenti importanti. Per questo ho deciso di presenziare alla cerimonia, non perché desideravo ardentemente vincere un altro David, ma per stare vicino a lui e agli altri stupendi attori che non hanno vinto. Non avrei mai potuto lasciarli da soli.
Salito sul palco per ritirare il David, Renato ha detto, rivolgendosi al produttore del film, che bisognerebbe avere più coraggio qualche volta. Infatti, non nego che ho dovuto imporlo per il mio film. Nel manifesto non c’è il suo volto in primo piano, ma una piccola figura che lo ritrae, nonostante sia lui il vero protagonista del film. I distributori e i produttori, ossia quelli che hanno il dovere di rendere appetibile quello che poi finisce sullo schermo, avevano paura e non se la sono sentita di rischiare. E allora ecco che il nome di Renato viene dopo gli altri, con una “e” che lo precede. Lui è stato così intelligente da mettere da parte qualsiasi smania divistica, accettando questa cosa e l’ha fatto perché poi sapeva che comunque il pubblico gli avrebbe riconosciuto i giusti meriti. Ma non è solo Renato a rendere il film un’opera capace di arrivare alla gente. In tal senso, credo che Elio Germano sia un genio e che le due protagoniste, Giovanna Mezzogiorno e Micaela Ramazzotti, siano davvero al meglio, sia come recitazione sia come appaiono sullo schermo: molto belle, molto ben fotografate e molto ben vestite. Per il resto, io faccio le cose anche minuziosamente e gli attori che hanno lavorato con me lo sanno. Io ad esempio indico loro la posizione, anche se è di un millimetro differente rispetto a quella che loro magari assumono quando arrivano davanti alla macchina da presa, perché questo è il mio mestiere e io faccio solamente il mio mestiere. Quello del regista è un lavoro faticoso e non è per tutti, perché non ci si può ammalare, non ci si può permettere di sedersi e bisogna correre da una parte all’altra del set.

D: A Cortinametraggio 2018 ha presentato il suo nuovo romanzo dal titolo “Padre quotidiano”: di cosa parla e se ha intenzione di trarne un film per il grande schermo?

Amelio: Io sono estremamente innamorato di questo libro, tanto che posso anche osare nel dire che tengo molto più a queste pagine che a tutti i film che ho fatto nella mia carriera, sia per l’argomento sia perché ho trovato una scrittura che non credevo di possedere. Del resto di mestiere faccio il regista e non lo scrittore e se scrivo è perché poi ne farò un film. Di conseguenza, il processo di stesura è in funzione di una futura trasposizione. Sino ad oggi ho scritto due romanzi, non d più, e tra un romanzo e l’altro so che ho fatto dei passi in avanti. In tal senso, ritengo che “Padre quotidiano” è un libro che ha anche una sua valenza letteraria, oltre che un argomento autobiografico. Nelle pagine che lo compongono racconto dell’adozione che ho fatto di un ragazzo mentre giravo in Albania Lamerica, il film che è stato proiettato in una delle serate della 13esima edizione di Cortinametraggio. È stato un evento che ha cambiato radicalmente la mia vita e che mi ha permesso di avere una famiglia abbastanza incredibile In quella occasione non ho adottato solo il ragazzo, ma ho portato con me a Roma anche i suoi genitori naturali. Lui ha conosciuto quasi subito la sua attuale compagna, con la quale ha avuto tre figlie e con la quale vive da ventiquattro anni. Mentre sua madre abita con me.
Dunque, di fatto sono nonno, papà e marito, perché è mancato il padre naturale di mio figlio che era già malato quando ci siamo incontrati per la prima volta e aveva tutta una serie di paure che poi purtroppo, si sono avverate. La sua più grande paura era proprio quella di non riuscire a dare un avvenire al proprio figlio, soprattutto in un momento in cui l’Albania era un Paese veramente alla fame. Un giorno mi è venuto a cercare e dopo un viaggio di sei ore mi ha detto: “fino ad oggi è stato figlio mio, fa che da domani sia figlio tuo.” Me lo disse in albanese e qualcuno me lo tradusse in un secondo momento. Se avessi capito subito quelle parole, probabilmente mi sarei messo immediatamente a piangere a dirotto. Se mai questa storia diventerà un film, non sarò di certo io a dirigerlo e non perché non me la sento di farlo. Se ho deciso di scrivere un romanzo su questa storia è proprio perché quella era la forma della quale io mi volevo servire per raccontarla. Affiderei questo romanzo a qualcuno che lo ama veramente, a qualcuno che si rispecchia nella storia che racconta e che può fare sua. Questo è il l’approccio giusto. Non è importante che il regista abbia un nome altisonante; ciò che mi importa veramente è che si riconosca in questa storia.

D: Nel 2014 ha realizzato il documentario Felice chi è diverso in cui racconta diverse storie di omosessualità; cosa pensa della situazione attuale e cosa ritiene che sia cambiato?

Amelio: Credo che la situazione sia cambiata molto. Quando ho scritto le note di regia per il press book del documentario, ho specificato che si trattava di una storia che si fermava agli anni Ottanta. Infatti, tra le persone che ho intervistato c’era solo un ragazzo, mentre tutto il resto erano persone più mature. In Felice chi è diverso ho raccolto quelle testimonianze che potessero raccontare e rappresentare gli anni più oscuri della condizione omosessuale in Italia. Il testimone di Palermo, ad esempio, mi ha raccontato di quando gli omosessuali venivano mandati al confino, perché in Italia durante il Fascismo non c’era una legge contro l’omosessualità, ma si cercava comunque sempre un’altra scusa per isolare e cacciare dalla vita pubblica chi secondo loro era portatore di “disturbo” della quiete pubblica, di corruzione e persino si inventarono il reato di plagio per accusare Aldo Braibanti. Davvero una cosa indegna. Insomma, si cercava un’altra via perché in Italia non c’era una legge che proibisse l’omosessualità tra adulti consenzienti. Il motivo? Perché Mussolini non l’ha voluta mai fare. Se l’avesse fatta, avrebbe automaticamente ammesso che in Italia esistevano gli omosessuali, cosa che per lui era inconcepibile. Da un certo punto di vista è stata anche una fortuna, perché negli stessi anni in Inghilterra molti omosessuali venivano ricattati. Basta ripensare al film di Basil Dearden del 1961 dal titolo Victim, con Dirk Bogarde che interpreta il ruolo di un affermato avvocato della City accusato d’esser omosessuale. Si tratta della prima pellicola cinematografica inglese a chiara tematica gay, quando ancora in Inghilterra intrattenere rapporti omosessuali era considerato un reato punibile con la carcerazione. Quella legge rimase in vigore sino al 1975. Una cosa davvero da non credersi. Io personalmente non ho avuto mai problemi di questo tipo, perché ho una vita sentimentale e sessuale molto aperta e libera. Grazie a Dio alla luce del sole.

D: Con Casa d’altri ha esordito sulla breve distanza, parlando del terremoto di Amatrice; cosa l’ha spinta a realizzarlo?

Amelio: Casa d’altri è stato realizzato per compiere un gesto di protesta contro certi silenzi che riguardano, non la tragedia in sé del terremoto, sulla quale si è giustamente pianto molto, bensì la mancanza di una qualche forma di prevenzione. Non ci si interroga mai sul perché accadono così tanti fenomeni sismici in Italia. Sono calabrese e pensando alla mia terra, se un giorno un terremoto dovesse colpire ancora una volta quelle zone, probabilmente accadrebbe la stesso immane disastro del 1908, quando Reggio Calabria fu letteralmente rasa al suolo, con tutte quelle case che sono state costruite abusivamente che verrebbero spazzate via con una semplice folata di vento. Allora non si deve piangere quando la tragedia si è ormai consumata, ma si deve e si può trovare un riparo prima, perché le vittime poi non possono più protestare.
Io ho fatto questo primo cortometraggio dopo aver realizzato molti documentari in passato, tra cui uno del quale sono molto soddisfatto e che parla della guerra nei Balcani, ossia Non è finita la pace, cioè la guerra (1997). Poi mi sono occupato del terremoto dell’Irpinia in La terra è fatta così (2000), dell’emigrazione interna dal sud al nord d’Italia alla fine degli anni Cinquanta con Poveri noi (1999) e della storia del servizio militare in Italia con L’onore delle armi (1999) Insomma, mi sono molto occupato di temi civili, perché secondo me quando si fanno dei documentari l’impegno civile è importante, mentre quando si fa un film di finzione è bene che escano fuori i sentimenti.

D: C’è un regista del panorama cinematografico nostrano che sente più vicino al suo modo di pensare e concepire la Settima Arte?

Amelio: Ce n’è più di uno. Essendo docente al Centro Sperimentale dal 1983, tanti miei allievi sono diventati registi di grande fama. Forse il nome più conosciuto è quello di Paolo Virzì. Diciamo che tra tanti quello che credo mi somigli di più è Francesco Munzi che non a caso ha fatto un film in Calabria dal titolo Anime nere, oppure un altro film come Saimir che si ispira a Lamerica. Con lui abbiamo passato insieme alcuni anni al Centro Sperimentale e ogni tanto ci siamo scambiati i ruoli. Poi ci sono altri registi molto bravi come Saverio Costanzo e Jonas Carpignano.

Francesco Del Grosso e Maria Lucia Tangorra

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